Categoria: Recupero crediti

L’imprenditore occulto risponde dei debiti nei confronti del lavoratore

L’imprenditore occulto risponde dei debiti nei confronti del lavoratore

Non è raro che il datore di lavoro, che sia costituito come persona fisica o in forma societaria, sia un vuoto prestanome che il lavoratore – pur formalmente impiegato da un soggetto – presti la propria attività in favore di un altro, che apparentemente non ha legami con il primo.

Si tratta di fenomeni fraudolenti che molto spesso mascherano episodi di sfruttamento e violazione delle norme che presiedono ai rapporti di lavoro, contro cui il lavoratore spesso non può difendersi.

La giurisprudenza ha da tempo stabilito la rilevanza giuridica dell’imprenditore cd. occulto, basandosi su un’interpretazione letterale dell’art. 2092 c.c. che esordisce con “è imprenditore” colui che esercita professionalmente un’attività economica, e dunque valorizzando un profilo di fatto dell’esercizio dell’attività, più che un profilo di diritto dell’iscrizione al registro delle imprese o altro.

il Tribunale di Venezia ha allargato tale rilevanza del fenomeno dell’imprenditore occulto anche ai rapporti di lavoro.

In una recente sentenza, infatti, il giudice lagunare ha statuito che “l’ esercizio da parte dello stesso del potere di iniziativa e delle scelte di gestione nell’ attività di impresa facente formalmente capo alla (omissis)” di fatto rende l’imprenditore occulto “il centro gravitazionale delle scelte effettuate dall’ impresa sia in sede di avvio dell’attività, che nella successiva gestione ed infine quanto alla scelta di dar vita alla S.R.L.”, seguendo l’insegnamento della Suorema Corte (cfr. per tutte Cass. 27541/2019).

Ne deriva, dunque, secondo il Tribunale di Venezia, una riconducibilità del potere direttivo, e dunque della responsabilità per i crediti derivati dall’attività imprenditoriale, anche all’imprenditore occulto oltre che a quello apparente.

Legge Gelli-Bianco applicabile anche in assenza dei decreti attuativi

Legge Gelli-Bianco applicabile anche in assenza dei decreti attuativi

Risultato immagini per responsabilità sanitaria

Il Tribunale di Venezia ribadisce l’applicabilità degli strumenti processuali previsti dalla L. Gelli-Bianco anche in assenza di decreti attuativi che, ricordiamo, a quasi tre anni di distanza dalla promulgazione della Legge, non sono ancora stati emanati.

La Legge 24/2017, cd. Gelli-Bianco recante “disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” aveva profondamente innovato il settore della responsabilità medica e sanitaria finalmente codificando le conclusioni a cui era da tempo giusta la giurisprudenza di merito e di legittimità sull’assetto delle azioni nei confronti delle strutture sanitarie e della responsabilità di queste ultime.

Muovendo dall’elaborazione pretoria del cd. “contratto atipico di spedalità”, la Legge aveva riconosciuto la responsabilità ex art. 1218 e 1228 c.c. (di natura contrattuale) in capo alla struttura, ed ex art. 2043 c.c. (aquiliana) in capo al sanitario direttamente responsabile lasciando al danneggiato la scelta se agire contro l’uno e contro l’altro.

Peraltro, la Legge, all’art. 8, ha prefigurato uno speciale percorso processuale per tale tipo di azione, che prevede la facoltà per l’attore di scegliere tra la preventiva mediazione e il ricorso per consulenza tecnica ai fini della composizione della lite, ex art. 696 bis c.p.c., già prima della sua promulgazione strumento molto usato nella pratica giudiziaria, ed ora codificato come primo passo, seguito poi dal ricorso ex art. 702 bis ove la conciliazione non riesca.

La legge, peraltro, nello spingere al massimo la finalità conciliativa, aveva previsto che fin dall’inizio l’assicuratore dell’azienda sanitaria (che deve per Legge essere pubblicamente indicato assieme agli estremi di polizza nel sito internet dell’azienda sanitaria stessa) fosse parte dell’accertamento tecnico in modo da poter fin dall’inizio formulare eventuali proposte transattive da un lato, e dall’altro, l’accertamento gli fosse opponibile in caso di mancata conciliazione.

Per di più, la legge qualifica la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva “obbligatorio” per tutte le parti, riservando un trattamento particolarmente severo alla parte che, convenuta in giudizio, non partecipi: “in caso di mancata partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione”.

Il quadro normativo in esame, dunque, spinge fortemente per una conciliazione nella prima fase facilitandola al massimo mediante la previsione della partecipazione della compagnia di assicurazioni fin dall’inizio ed evitando inutili rinvii legati a chiamate in causa di terzi, autorizzando il ricorrente alla citazione diretta.

Fin dall’inizio si erano posti due problemi interpretativi di notevole portata: che sorte avrebbero avuto le azioni iniziate dopo l’entrata in vigore della Legge, ma riferite a fatti precedenti la stessa?

E ancora, cosa avrebbero dovuto fare i danneggiati in attesa che fossero emanati i decreti attuativi che il legislatore non ha ancora voluto emanare dopo quasi tre anni dall’entrata in vigore della Legge?

Quanto alla prima domanda, è stato ritenuto in dottrina e in giurisprudenza che, pur essendo pacifico che al fatto genetico della responsabilità risalente a prima delle Legge Gelli Bianco (L. 24/2017) la disciplina sostanziale applicabile fosse quella precedente, con tutta la sua conseguente elaborazione giurisprudenziale in tema di responsabilità della struttura in forza del cd. contratto atipico di “spedalità”, fossero purtuttavia applicabili le norme di natura processuale prevedute dalla L. 24/2017 proprio perché di natura non sostanziale, ma destinate a regolare il rapporto processuale, con la conseguenza che esse si applicano a tutti i procedimenti promossi successivamente, indipendentemente dal momento del fatto genetico della responsabilità.

Quanto alla seconda, nel costituirsi in giudizio gli assicuratori avevano più volte contestato la carenza di legittimazione legata al fatto che le disposizioni relative all’azione diretta del soggetto danneggiato nei confronti dell’impresa di assicurazione, stando alla norma, “si applicano a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 6 dell’art. 10 con il quale sono determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie”, che, come noto, ad oggi non è stato ancora emanato.

Tuttavia, era stato osservato fin dall’inizio che tale lacuna legislativa, ossia la mancata adozione del decreto attuativo ex art. 1, co. 6, al massimo avrebbe escluso la sussistenza dei presupposti per l’irrogazione della sanzione di cui all’art. 8, ma non faceva venir meno l’obbligatoria partecipazione al procedimento di tutti i soggetti coinvolti.

Su tale linea si erano già espressi numerosi giudici di merito, tra cui Trib. Verona, 17.5.2018 e Trib. Venezia, 16.7.2018.

Proprio il Tribunale di Venezia, con ordinanza del 5.2.2020 (G.I. dott. Simone) ha summarizzato e indicato molto chiaramente le condizioni di applicabilità della L. 24/2017 in mancanza dei decreti attuativi.

La vicenda trae origine da un ricorso ex art. 696 bis c.p.c. e art. 8 L. 24/2017 con cui i ricorrenti, patrocinati dall’Avv. Marco Biagioli, lamentando un errore diagnostico che aveva condotto a terapie inadeguate e conseguente danno alla salute, convenivano in giudizio l’azienda sanitaria e il proprio assicuratore per la preventiva fase della consulenza tecnica.

L’assicuratore si costituiva in giudizio eccependo carenza di legittimazione per la mancata adozione del decreto attuativo ex art. 1, co. 6, che a suo dire avrebbe escluso l’azione diretta, e perché la SIR della polizza aveva un valore di 750.000 euro, lasciando altrimenti la gestione della controversia all’azienda sanitaria.

Il Tribunale, dopo aver udito le repliche dei ricorrenti, rilevava che “pur non essendo stata ancora varato il decreto previsto dall’art. 10, comma 6, l. 24/2017 circa <<i requisiti minimi delle polizze assicurative>>, attesa la chiara finalità del legislatore di individuare un percorso processuale teso a propiziare, ove possibile, la conciliazione della instauranda controversia, non è dirimente l’assenza di azione diretta da parte del soggetto (asseritamente) danneggiato verso la compagnia della struttura” e che dunque “nell’indicata traiettoria, volta a favorire la massima e fattiva partecipazione alla procedura ex art. 696 bis c.p.c., l’art. 8, comma 4, prevede un meccanismo sanzionatorio, che evidenzia il chiaro intento del legislatore di consentire lo svolgimento della consulenza nel pieno contraddittorio di tutti i soggetti potenzialmente interessati anche al fine di rendere opponibile il disposto accertamento, sì da evitare la reiterazione nella fase di merito”.

Quanto alle eccezioni dell’assicuratore, aggiungeva che “non è dirimente quanto osservato dalla compagnia in merito alla portata dell’obbligo di partecipazione al procedimento ex art. 15, comma 4, l. 24/2017, posto che, fermo il menzionato rafforzamento della finalità conciliativa, la mancata adozione del decreto attuativo ex art. 1, comma 6, s.l. al più potrebbe portare ad escludere la sussistenza dei presupposti per l’erogazione della prevista sanzione, ma nondimeno rimane il dato della obbligatoria partecipazione al procedimento di tutti i soggetti indicati dal ricorrente” e che “non è dubitabile che l’impianto della legge 24/2017 sia connotato da una esigenza di accelerazione, che non può essere frustrato dal ritardo nell’emanazione della normativa di attuazione con il rischio di un incremento dei costi processuali in caso di reiterazione dell’accertamento nella fase di merito” (Trib. Venezia, 5.2.2020).

Il Giudice pertanto, in accoglimento del ricorso e respingendo le opposte eccezioni, nominava il consulente tecnico d’ufficio e formulava il quesito.

La pronuncia, dunque, conferma la bontà del percorso scelto dal difensore e le conclusioni della giurisprudenza più accorta che aveva osservato come la finalità acceleratoria e deflattiva del procedimento non potesse essere cancellata a causa dell’inerzia nell’emanazione del decreto attuativo e che la predisposizione di un impianto processuale teso alla conciliazione, favorita sotto molti punti di vista, dovesse essere comunque salvaguardata. Tale pronuncia traccia nuovamente una linea importantissima per chi, già colpito da sciagurati eventi quali l’errore medico e il correlativo danno alla salute, si vedeva opporre dagli assicuratori delle aziende sanitarie eccezioni meramente dilatorie e defatigatorie, rallentando il raggiungimento del risultato ultimo, ossia della risoluzione della lite con la corresponsione del giusto risarcimento.

E se l’inquilino non paga il canone?

E se l’inquilino non paga il canone?

Concedere in locazione un immobile è il modo più semplice per metterlo a reddito, ma in alcuni casi può trasformarsi in un bel grattacapo se l’inquilino dovesse smettere improvvisamente di pagare il canone di locazione.

Che si deve fare in questi casi?
Il primo passo, naturalmente, sarà quello di inviargli una raccomandata A/R, preferibilmente predisposta da un Avvocato, per sollecitarlo a onorare le proprie obbligazioni.
Tuttavia, può ben accadere che, nonostante i solleciti, l’inquilino continui a non pagare, e allora l’unica soluzione è ottenere nel più breve tempo possibile il rilascio dell’immobile e un titolo esecutivo per avviare l’esecuzione forzata per il recupero del dovuto.

In questi casi l’ordinamento mette a disposizione un rimedio di giustizia piuttosto rapido ed efficiente: il procedimento per convalida di sfratto.
Tale procedimento, quando si riferisce allo sfratto per morosità (ossia allo sfratto legato al mancato pagamento del canone), è attivabile a condizione che l’inquilino si sia reso moroso del pagamento di almeno un rateo del canone di locazione.
Il procedimento inizia con un atto di intimazione di sfratto per morosità notificato all’inquilino con contestuale citazione all’udienza di convalida che dovrà essere fissata almeno venti giorni dopo la notifica dell’atto.

All’udienza di convalida possono accadere tre cose:
L’inquilino non compare: in questo caso il giudice convalida lo sfratto e fissa il termine entro cui l’inquilino dovrà lasciare libero l’immobile;
L’inquilino compare, ma non si oppone allo sfratto: anche in questo caso il giudice convalida lo sfratto e fissa il termine entro cui l’inquilino dovrà lasciare libero l’immobile;
L’inquilino compare e si oppone, contestando o meno la morosità: in questo ultimo caso il giudice metterà la causa in istruttoria e avrà inizio un vero e proprio processo civile, nelle forme del cd. rito locatizio (una forma processuale un po’ più semplice del processo civile ordinario), dopo aver tentato la mediazione civile tra le parti, avanti a un mediatore terzo. Il giudice, comunque, a seconda che l’opposizione appaia “seria” in quanto fondata su una prova scritta, o meno, potrà ugualmente convalidare lo sfratto “con riserva”.

In tutti i casi, la convalida non può aver luogo se il locatore non dichiara la persistenza della morosità o se l’inquilino la sani all’udienza.
Nel solo caso di immobili ad uso abitativo, peraltro, la L. 392/1978 (cd. sull’equo canone) consente al conduttore di chiedere al giudice un termine, non superiore a novanta giorni, entro cui sanare la morosità e pagare tutte le spese del giudizio, impedendo così la convalida. Se l’inquilino chiede la concessione di tale termine e il giudice ritiene vi sia possibilità che la sanatoria avvenga, verrà fissata una nuova udienza entro la quale l’inquilino dovrà aver sanato la morosità e le spese di giudizio, oltre ad aver pagato i canoni scaduti nel frattempo.
A questa nuova udienza, se l’inquilino avrà regolarizzato la propria posizione, il procedimento si estinguerà, altrimenti il giudice pronuncerà l’ordinanza di convalida, ossia il provvedimento con cui rende concretamente attivabile lo sfratto, imponendo all’inquilino di rilasciare l’immobile entro una certa data.

In questa fase il locatore, se non lo abbia già fatto prima, contestualmente all’intimazione di sfratto, potrà chiedere al giudice di pronunciare anche un decreto ingiuntivo per tutti i canoni non pagati e quelli che scadranno fino al rilascio, oltre alle spese di giustizia e agli interessi.

Il conduttore avrà a quel punto a sua disposizione due titoli esecutivi, uno per il pagamento delle somme (il decreto ingiuntivo) e uno per il rilascio dell’immobile (l’ordinanza di convalida), entrambi immediatamente esecutivi e che potrà notificare all’inquilino insieme al precetto, ossia all’intimazione a pagare e a rilasciare l’immobile ancora detenuto.

Qualora l’inquilino non ottemperi, sarà necessario procedere all’esecuzione forzata vera e propria, ossia allo sloggio dell’inquilino e al pignoramento dei suoi beni, cosa di cui si occupa l’ufficiale giudiziario.

A seconda dei Tribunali, tutto il procedimento giudiziale, e salve eventuali opposizioni, dovrebbe restare contenuto entro un termine relativamente breve, comunque non superiore all’anno.
Diverso il caso dell’eventuale esecuzione forzata, che potrebbe richiedere tempi un po’ più lunghi a seconda dell’organizzazione e del carico di lavoro degli Ufficiali Giudiziari competenti per zona.

Per tutta la procedura è comunque necessario rivolgersi a un Avvocato competente in tema di locazioni che, a seconda delle circostanze, saprà dare le indicazioni e i consigli più opportuni su come procedere.

Un’ultima importante nota: il contratto di locazione deve, a pena di nullità, essere registrato.
Qualora non abbiate registrato il contratto di locazione, tutto il procedimento che precede è esposto al rischio di una opposizione per nullità del contratto di locazione originario. Sul punto la giurisprudenza si è divisa nella possibilità di proseguire nella strada indicata, per cui l’Avvocato dovrà attentamente valutare le circostanze e valutare se non sia opportuno procedere in forma diversa.

Se il datore di lavoro non paga lo stipendio: che fare?

Se il datore di lavoro non paga lo stipendio: che fare?

Può capitare, soprattutto in periodi di crisi economica, che il datore di lavoro non paghi uno o più stipendi.
Che fare in questi casi?

Il sentimento del lavoratore è sempre duplice: da un lato vi è la volontà di recuperare quanto dovuto, dall’altro vi è il timore di creare una frattura nei rapporti con il datore di lavoro e di entrare in un lungo contenzioso, senza poi sapere se e quando la pretesa sarà pienamente soddisfatta.

L’ordinamento, tuttavia, mette a disposizione del lavoratore degli strumenti semplici e, talvolta, molto veloci, per affrontare queste situazioni.

Distinguiamo subito due possibilità: può accadere che il datore di lavoro non paghi lo stipendio, ma consegni il cedolino paga, oppure che non dia entrambi. Anche la mancata consegna del cedolino è una violazione dei doveri del datore di lavoro (punibile con una sanzione amministrativa da 150 a 900 euro) dal momento che il diritto del lavoratore a riceverlo è stabilito dall’art. 1 L. 4 del 05.01.1953.

Nel caso in cui il datore di lavoro abbia consegnato al lavoratore il cedolino, tutto è più semplice. Il cedolino costituisce infatti scrittura contabile aziendale e dunque fa piena prova contro l’imprenditore con la conseguenza che il lavoratore potrà richiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo (ossia un ordine del Giudice di pagare la somma dovuta, oltre agli interessi e alle spese legali) al Tribunale del luogo in cui presta la propria attività.

A questo punto costui può scegliere se pagare entro 40 giorni o fare opposizione; se decide di opporsi si instaurerà una causa di lavoro in cui il datore di lavoro dovrà dimostrare, per essere liberato, di aver effettivamente corrisposto le retribuzioni reclamate.
Comunque, alla prima udienza il Giudice potrà decidere di rendere provvisoriamente esecutivo il decreto ingiuntivo, abilitando il lavoratore all’esecuzione forzata, ovvero al pignoramento di beni o di crediti dell’impresa, per vedere soddisfatte le proprie pretese.

Se entro i 40 giorni il datore di lavoro non paga e non fa opposizione, il decreto ingiuntivo diviene esecutivo, e il lavoratore può procedere all’esecuzione forzata.
Se invece il datore di lavoro non consegna il cedolino, il lavoratore dovrà instaurare una causa di lavoro dimostrando non solo l’esistenza del rapporto, ma anche l’ammontare dovuto, mancando una scrittura proveniente dall’impresa con efficacia probatoria.

Vi è però una strada più semplice, meno costosa e più veloce: la diffida accertativa. Prevista per la prima volta dal D. Lgs. 124 del 23.04.2004, la diffida è un atto non giurisdizionale, ma dell’ispettore del lavoro, che consente di arrivare rapidamente alla formazione del titolo esecutivo (e quindi all’esecuzione forzata).
Nel corso di una ispezione, anche eventualmente su sollecito del lavoratore, dunque, l’ispettore può compiere un accertamento di tipo tecnico, ossia accertare che il lavoratore è creditore di una determinata somma di denaro certa, liquida ed esigibile.

Il Ministero del Lavoro ha chiarito che sono accertabili tecnicamente, e quindi diffidabili, fra gli altri, i crediti retributivi da omesso pagamento, fino ad estendersi anche alle ipotesi di dequalificazione o lavoro sommerso.

Accertata la debenza, l’ispettore del lavoro compila la diffida e la notifica al datore di lavoro. Questi, entro 30 giorni può promuovere la conciliazione alla direzione territoriale del lavoro o il ricorso al comitato regionale per i crediti patrimoniali.

Se omette entrambe le cose, e non paga, scaduti i 30 giorni il direttore della Direzione Territoriale del Lavoro può attribuire alla diffida valore di titolo esecutivo, abilitando così il lavoratore all’esecuzione forzata.

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