Categoria: Lavoro

L’imprenditore occulto risponde dei debiti nei confronti del lavoratore

L’imprenditore occulto risponde dei debiti nei confronti del lavoratore

Non è raro che il datore di lavoro, che sia costituito come persona fisica o in forma societaria, sia un vuoto prestanome che il lavoratore – pur formalmente impiegato da un soggetto – presti la propria attività in favore di un altro, che apparentemente non ha legami con il primo.

Si tratta di fenomeni fraudolenti che molto spesso mascherano episodi di sfruttamento e violazione delle norme che presiedono ai rapporti di lavoro, contro cui il lavoratore spesso non può difendersi.

La giurisprudenza ha da tempo stabilito la rilevanza giuridica dell’imprenditore cd. occulto, basandosi su un’interpretazione letterale dell’art. 2092 c.c. che esordisce con “è imprenditore” colui che esercita professionalmente un’attività economica, e dunque valorizzando un profilo di fatto dell’esercizio dell’attività, più che un profilo di diritto dell’iscrizione al registro delle imprese o altro.

il Tribunale di Venezia ha allargato tale rilevanza del fenomeno dell’imprenditore occulto anche ai rapporti di lavoro.

In una recente sentenza, infatti, il giudice lagunare ha statuito che “l’ esercizio da parte dello stesso del potere di iniziativa e delle scelte di gestione nell’ attività di impresa facente formalmente capo alla (omissis)” di fatto rende l’imprenditore occulto “il centro gravitazionale delle scelte effettuate dall’ impresa sia in sede di avvio dell’attività, che nella successiva gestione ed infine quanto alla scelta di dar vita alla S.R.L.”, seguendo l’insegnamento della Suorema Corte (cfr. per tutte Cass. 27541/2019).

Ne deriva, dunque, secondo il Tribunale di Venezia, una riconducibilità del potere direttivo, e dunque della responsabilità per i crediti derivati dall’attività imprenditoriale, anche all’imprenditore occulto oltre che a quello apparente.

Art. 15 T.U. IVA applicabile anche ai forfettari

Art. 15 T.U. IVA applicabile anche ai forfettari

Il regime IVA forfettario, introdotto dall’art. 1, co. 54-89, L. 190/2014 (cd. Legge di stabilità 2015) rappresenta il regime naturale delle persone fisiche che esercitano un’attività di impresa, arte o professione in forma individuale, che rispettino i limiti patrimoniali richiesti e purché siano in possesso degli altri requisiti stabiliti dal co. 54 e ss. citati, come da ultimo modificati, a decorrere dal 1.1.2020, dalla L. 160/2019 (Legge di Bilancio 2020).

Naturale perché contiene alcune disposizione di grande favore sia in ordine all’aliquota di imposizione, sia alla non assoggettabilità ad imposta sul valore aggiunto dei compensi percepiti, che in ordine alla estrema semplificazione del regime stesso, che esclude la tenuta di qualsiasi libro o registro ad eccezione della conservazione e numerazione delle fatture di acquisto e di vendita, nonché l’esonero dagli studi di settore, redditometro e spesometro.

Il requisito patrimoniale principale dell’attuale regime è il non aver conseguito, tra l’altro, nell’anno precedente, ricavi superiori ad euro 65.000,00.

Ma come vanno conteggiati ed intesi tali euro 65.000,00 di fatturato massimo ai fini del regime fiscale in oggetto? La domanda è, in verità, piuttosto importante poiché il superamento della soglia comporta, per il contribuente, la fuoriuscita dal regime agevolato e il transito nel regime ordinario, con tutte le conseguenze del caso.

Da articoli a stampa, anche specializzata e anche abbastanza autorevoli, che periodicamente compaiono sul punto, si legge una discreta confusione su un punto di grande importanza, ossia l’applicabilità, ai contribuenti in regime forfettario, dell’art. 15, co. 1, n. 3 D.P.R. 633/1972 (cd. Testo Unico IVA) che, come noto, prevede che “non concorrono a formare la base imponibile:

(…)

3) le somme dovute a titolo di rimborso delle anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, purché regolarmente documentate”, e dunque l’esclusione dal calcolo dell’imponibile del riaddebito di somme che il contribuente anticipa in nome e per conto del cliente e pacificamente a lui riferibili.

Tutti i professionisti sostengono, per conto del cliente, spese per lo svolgimento dell’incarico, che poi riaddebitano allo stesso quali “spese esenti” o “anticipazioni non imponibili”. Non parliamo di spese di produzione di reddito, ma di spese cd. vive, come bolli, postali, tasse su singoli adempimenti e altre voci di spesa che il contribuente non sostiene per lo svolgimento della propria attività, ma in sostituzione del cliente per l’adempimento del singolo mandato da questi ricevuto, e che il cliente potrebbe, avendone le competenze, sostenere in proprio consegnando al professionista la prova del pagamento.

Nel regime IVA ordinario, tali spese sono espressamente escluse dal computo dell’imponibile in forza del citato art. 15, co. 1, n. 3 D.P.R. 633/1972; tuttavia è sorto un contrasto ancora non risolto sull’applicabilità di tale esclusione al contribuente in regime forfettario.

Da un lato, infatti, si sostiene che tale esclusione sia applicabile anche ai forfettari sia in ragione di un criterio di logica (non avrebbe senso considerare “componente positivo di reddito” il rimborso di una spesa anticipata che non produce alcun arricchimento per il contribuente), sia in ragione della lettura coordinata delle norme.

Le disposizioni rilevanti, infatti, ossia l’art. 1, co. 54-89, L. 190/2014 prevedono quanto segue:

“58. Ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, i contribuenti di cui al comma 54: (…) d) applicano alle prestazioni di servizi ricevute da soggetti non residenti o rese ai medesimi gli articoli 7-ter e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni;

64. I soggetti di cui al comma 54 determinano il reddito imponibile applicando all’ammontare dei ricavi o dei compensi percepiti il coefficiente di redditività nella misura indicata nell’allegato n. 4 (…). I contributi previdenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge, compresi quelli corrisposti per conto dei collaboratori dell’impresa familiare fiscalmente a carico, ai sensi dell’articolo 12 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, e successive modificazioni, ovvero, se non fiscalmente a carico, qualora il titolare non abbia esercitato il diritto di rivalsa sui collaboratori stessi, si deducono dal reddito determinato ai sensi del presente comma (…)”.

Da quanto ridetto si deduce che i contribuenti in regime forfettario:

Calcolano il reddito imponibile applicando il coefficiente di redditività all’ammontare dei compensi (ricavi per le imprese);

Applicano l’art. 7 ter e ss. D.P.R. 633/1972, e quindi, apparentemente, anche l’art. 15, co. 1, n. 3 sulle anticipazioni.

Dall’altro lato, invece, si sostiene che proprio le norme citate, prevedendo che la determinazione dell’imponibile avvenga mediante applicazione del coefficiente di redditività e che sia permessa la sola deduzione dei contributi previdenziali, impediscano l’applicazione dell’art. 15 poiché questo prevede delle deduzioni diverse da quelle esplicitamente considerate dalle disposizioni e, infine, perché comunque tali erogazioni costituiscono, per il professionista, dei “ricavi”.

A opinione di chi scrive il contrasto va risolto in senso affermativo alla applicabilità dell’art. 15 anche al regime forfettario, trattandosi di norma non esplicitamente esclusa dalle disposizioni e rientrante nelle previsioni del co. 58, ed essendo le anticipazioni di che trattasi assolutamente non qualificabili come compensi trattandosi di somme anticipate per conto del cliente e a lui pacificamente riferibili che non possono, da un punto di vista logico, costituire imponibile fiscale (e previdenziale) in ragione di quanto detto e pertanto si ritiene che sia possibile escludere dal computo dei componenti positivi di reddito ex art. 15, co. 1, n. 3, D.P.R. 633/1972 le spese documentate anticipate in nome e per conto del cliente, che sono poi recuperati mediante addebito in fattura sotto la voce “spese esenti” o “anticipazioni non imponibili”, e che pacificamente non costituiscono “compensi”, mentre la voce “ricavi” ha poco senso nel contesto di cui si parla poiché essi attengono non all’attività professionale o di lavoro autonomo ma al reddito d’impresa.

Interrogata sul punto con l’interpello 907-107/2020 ex art. 11, co. 1, lett. a), L. 212/2000, è finalmente intervenuta a dare chiarezza l’Agenzia delle Entrate la quale ha specificato che, con riferimento ai redditi di lavoro autonomo, l’amministrazione finanziaria, con circolare 58/E del 18.6.2001, al paragrafo 2.2, aveva in allora precisato che tra i compensi del professionista rientrano i proventi percepiti sotto forma di rimborsi dispese inerenti all’attività, con esclusione dei rimborsi relativi a spese, analiticamente dettagliate, anticipate in nome e per conto del cliente. Tale situazione impone che i rimborsi, salvo quelli anticipati in nome e per conto del cliente, siano trattati alla stregua degli altri compensi”.

Ancora, con la Risoluzione 163/E del 22.10.2001, è stato ulteriormente chiarito che “i compensi che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo sono costituiti dalle erogazioni che i clienti corrispondono ai professionisti ed artisti nel periodo d’imposta considerato. Nella nozione di compenso vanno inclusi anche i proventi percepiti sotto forma di rimborsi di spese inerenti all’attività, con esclusione di quelli relativi a spese analiticamente dettagliate, anticipate in nome e per conto del cliente.

Peraltro anche le risoluzioni 59 del 17.4.1996 e 164/E del 31.7.2003, pur se rese in ambito IVA, avevano precisato che il presupposto essenziale affinché un determinato importo, riaddebitato al committente, possa essere escluso dalla base imponibile IVA è costituito dalla diretta insorgenza nella sfera patrimoniale del committente dell’onere di cui trattasi: in presenza di tale presupposto, infatti, può ravvisarsi un pagamento effettuato in nome e per conto di terzi e, conseguentemente, può escludersi la natura di corrispettivo dell’importo riaddebitato al committente, in quanto debito sorto direttamente nella sfera patrimoniale di quest’ultimo.

Tale risposta chiarisce definitivamente che, anche per i contribuenti in regime forfettario, opera pienamente l’art. 15, co. 1, n. 3 D.P.R. 633/1972 e dunque le anticipazioni effettuate in nome e per conto del cliente, purché debitamente documentate, non rappresentano un componente positivo di reddito per il professionista. In un prossimo articolo verrà esaminato come tali voci debbano essere trattate ai fini della compilazione della certificazione unica.

Se il datore di lavoro non paga lo stipendio: che fare?

Se il datore di lavoro non paga lo stipendio: che fare?

Può capitare, soprattutto in periodi di crisi economica, che il datore di lavoro non paghi uno o più stipendi.
Che fare in questi casi?

Il sentimento del lavoratore è sempre duplice: da un lato vi è la volontà di recuperare quanto dovuto, dall’altro vi è il timore di creare una frattura nei rapporti con il datore di lavoro e di entrare in un lungo contenzioso, senza poi sapere se e quando la pretesa sarà pienamente soddisfatta.

L’ordinamento, tuttavia, mette a disposizione del lavoratore degli strumenti semplici e, talvolta, molto veloci, per affrontare queste situazioni.

Distinguiamo subito due possibilità: può accadere che il datore di lavoro non paghi lo stipendio, ma consegni il cedolino paga, oppure che non dia entrambi. Anche la mancata consegna del cedolino è una violazione dei doveri del datore di lavoro (punibile con una sanzione amministrativa da 150 a 900 euro) dal momento che il diritto del lavoratore a riceverlo è stabilito dall’art. 1 L. 4 del 05.01.1953.

Nel caso in cui il datore di lavoro abbia consegnato al lavoratore il cedolino, tutto è più semplice. Il cedolino costituisce infatti scrittura contabile aziendale e dunque fa piena prova contro l’imprenditore con la conseguenza che il lavoratore potrà richiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo (ossia un ordine del Giudice di pagare la somma dovuta, oltre agli interessi e alle spese legali) al Tribunale del luogo in cui presta la propria attività.

A questo punto costui può scegliere se pagare entro 40 giorni o fare opposizione; se decide di opporsi si instaurerà una causa di lavoro in cui il datore di lavoro dovrà dimostrare, per essere liberato, di aver effettivamente corrisposto le retribuzioni reclamate.
Comunque, alla prima udienza il Giudice potrà decidere di rendere provvisoriamente esecutivo il decreto ingiuntivo, abilitando il lavoratore all’esecuzione forzata, ovvero al pignoramento di beni o di crediti dell’impresa, per vedere soddisfatte le proprie pretese.

Se entro i 40 giorni il datore di lavoro non paga e non fa opposizione, il decreto ingiuntivo diviene esecutivo, e il lavoratore può procedere all’esecuzione forzata.
Se invece il datore di lavoro non consegna il cedolino, il lavoratore dovrà instaurare una causa di lavoro dimostrando non solo l’esistenza del rapporto, ma anche l’ammontare dovuto, mancando una scrittura proveniente dall’impresa con efficacia probatoria.

Vi è però una strada più semplice, meno costosa e più veloce: la diffida accertativa. Prevista per la prima volta dal D. Lgs. 124 del 23.04.2004, la diffida è un atto non giurisdizionale, ma dell’ispettore del lavoro, che consente di arrivare rapidamente alla formazione del titolo esecutivo (e quindi all’esecuzione forzata).
Nel corso di una ispezione, anche eventualmente su sollecito del lavoratore, dunque, l’ispettore può compiere un accertamento di tipo tecnico, ossia accertare che il lavoratore è creditore di una determinata somma di denaro certa, liquida ed esigibile.

Il Ministero del Lavoro ha chiarito che sono accertabili tecnicamente, e quindi diffidabili, fra gli altri, i crediti retributivi da omesso pagamento, fino ad estendersi anche alle ipotesi di dequalificazione o lavoro sommerso.

Accertata la debenza, l’ispettore del lavoro compila la diffida e la notifica al datore di lavoro. Questi, entro 30 giorni può promuovere la conciliazione alla direzione territoriale del lavoro o il ricorso al comitato regionale per i crediti patrimoniali.

Se omette entrambe le cose, e non paga, scaduti i 30 giorni il direttore della Direzione Territoriale del Lavoro può attribuire alla diffida valore di titolo esecutivo, abilitando così il lavoratore all’esecuzione forzata.

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