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L’imprenditore occulto risponde dei debiti nei confronti del lavoratore

L’imprenditore occulto risponde dei debiti nei confronti del lavoratore

Non è raro che il datore di lavoro, che sia costituito come persona fisica o in forma societaria, sia un vuoto prestanome che il lavoratore – pur formalmente impiegato da un soggetto – presti la propria attività in favore di un altro, che apparentemente non ha legami con il primo.

Si tratta di fenomeni fraudolenti che molto spesso mascherano episodi di sfruttamento e violazione delle norme che presiedono ai rapporti di lavoro, contro cui il lavoratore spesso non può difendersi.

La giurisprudenza ha da tempo stabilito la rilevanza giuridica dell’imprenditore cd. occulto, basandosi su un’interpretazione letterale dell’art. 2092 c.c. che esordisce con “è imprenditore” colui che esercita professionalmente un’attività economica, e dunque valorizzando un profilo di fatto dell’esercizio dell’attività, più che un profilo di diritto dell’iscrizione al registro delle imprese o altro.

il Tribunale di Venezia ha allargato tale rilevanza del fenomeno dell’imprenditore occulto anche ai rapporti di lavoro.

In una recente sentenza, infatti, il giudice lagunare ha statuito che “l’ esercizio da parte dello stesso del potere di iniziativa e delle scelte di gestione nell’ attività di impresa facente formalmente capo alla (omissis)” di fatto rende l’imprenditore occulto “il centro gravitazionale delle scelte effettuate dall’ impresa sia in sede di avvio dell’attività, che nella successiva gestione ed infine quanto alla scelta di dar vita alla S.R.L.”, seguendo l’insegnamento della Suorema Corte (cfr. per tutte Cass. 27541/2019).

Ne deriva, dunque, secondo il Tribunale di Venezia, una riconducibilità del potere direttivo, e dunque della responsabilità per i crediti derivati dall’attività imprenditoriale, anche all’imprenditore occulto oltre che a quello apparente.

Legittima l’eccezione di inadempimento nel contratto di locazione commerciale

Legittima l’eccezione di inadempimento nel contratto di locazione commerciale

Il Tribunale di Venezia, con una interessante sentenza, torna a delineare i contorni della legittimità dell’eccezione di inadempimento nei contratti di locazione commerciale.

Sul punto, l’elaborazione della Cassazione aveva da tempo condotto alla conclusione per cui l’eccezione di inadempimento del conduttore, ossia il rifiuto di pagare i canoni di locazione, fosse legittima, e dunque inibisse la risoluzione per inadempimento, solo in presenza di un inadempimento cd. “totalitario” da parte del locatore, ossia della manifesta impossibilità di godere il bene da parte del conduttore.

La vicenda da cui trae ogirine la sentenza riguarda la locazione di un bene immobile ad uso commerciale destinato alla rivendita di vini, per il quale il locatore aveva chiesto lo sfratto per morosità del conduttore.

nel costituirsi in giudizio, l’intimato esponeva che, a seguito di lavori di natura straordinaria iniziati nei locali oggetto di locazione su commissione di parte locatrice, ma i completati, era stato costretto a chiudere l’attività di rivendita di vini a causa della sopravvenutà completa inutilizzabilità del locale, lasciato giacere quale incompiuto cantiere a causa della fuga dell’esecutore incaricato dalla proprietà.

Muovendo dall’esegesi degli art. 1571,1575 e 1576 c.c. secondo cui la locazione è il contratto con cui una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile od immobile, per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo, il Tribunale ricostruisce le obbligazioni del locatore, tra cui quella di consegnare la cosa in buono stato di manutenzione, di mantenerla in istato da servire
all’uso convenuto e di garantirne il pacifico godimento durante il rapporto.

Il Tribunale riconosce che il generale principio di cui all’art. 1460 c.c., in tema di locazione, ha delle indiscutibili peculiarità, laddove si consideri che il rapporto locatizio è caratterizzato dal godimento dell’immobile, integrante la prestazione del locatore, cui fa da controprestazione il pagamaneto del canone, ma che tra le due prestazioni pur sempre sussiste un rapporto di sinallagmaticità che va declinato anche alla luce dei principi di correttezza e buona fede, di guisa che essa non possa produrre una alterazione del sinallagma contrattuale, determinando uno squilibrio delle rispettive posizioni delle parti del rapporto locatizio.

Ciò che va, dunque, stabilito in concreto, è se l’eccezione di inadempimento sia stata sollevata in buona fede oppure no, e che il Giudice del merito deve verificare “se la condotta della parte inadempiente, avuto riguardo all’incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto, abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico dello stesso, in rapporto all’interesse perseguito dalla parte, e perciò abbia legittimato, causalmente e proporzionalmente, la sospensione dell’adempimento dell’altra parte” (Cass. 2720/2009, conf. Cass. 16822/2003).

Sempre la giurisprudenza di legittimità ha ricordato che tale sospensione è stata ritenuta legittima solo “qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo altrimenti un’alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti. Inoltre, secondo il principio inadimplenti non est adimplendum, la sospensione della controprestazione è legittima solo se conforme a lealtà e buona fede” (Cass. 20322/2019).

Sulla base dei principi delineati, e alla luce della consulenza tecnica d’ufficio svolta nell’istruttoria, il Tribunale ha concluso che la mancata conclusione dei lavori di straordinaria manutenzione commissionati abbia reso il locale inidoneo allo svolgimento dell’attività commerciale del conduttore e che, ciò si sia posto in contraddizione con l’obbligo specifico di garantire il godimento degli immobili locati, rendendo così legittima la sospensione del pagamento dei canoni, essendo emersa l’inidoneità del locale allo svolgimento dell’attività commerciale, che in effetti da luglio 2019 si era interrotta senza più riprendere.

Nel caso di specie, infatto, era venuta completamente a mancare la completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore.

Il Giudice pertanto, in accoglimento dell’opposizione, dichiarava risoluto il contratto per inadempimento del locatore, non convalidando lo sfratto intimato per morosità.

La pronuncia, dunque, conferma la bontà del percorso scelto dal difensore quando, ancora in fase stragiudiziale, aveva avviato la mediazione annunciando che, in caso di mancato adeguamento dei locali, il conduttore avrebbe sospeso il pagamento dei canoni.

La pronuncia, ponendosi in piena coerenza con la giurisprudenza di merito e di legittimità ormai consolidata, conferma la possibilità del conduttore di reagire alla trascuratezza del locatore senza incorrere nello sfratto.

Art. 15 T.U. IVA applicabile anche ai forfettari

Art. 15 T.U. IVA applicabile anche ai forfettari

Il regime IVA forfettario, introdotto dall’art. 1, co. 54-89, L. 190/2014 (cd. Legge di stabilità 2015) rappresenta il regime naturale delle persone fisiche che esercitano un’attività di impresa, arte o professione in forma individuale, che rispettino i limiti patrimoniali richiesti e purché siano in possesso degli altri requisiti stabiliti dal co. 54 e ss. citati, come da ultimo modificati, a decorrere dal 1.1.2020, dalla L. 160/2019 (Legge di Bilancio 2020).

Naturale perché contiene alcune disposizione di grande favore sia in ordine all’aliquota di imposizione, sia alla non assoggettabilità ad imposta sul valore aggiunto dei compensi percepiti, che in ordine alla estrema semplificazione del regime stesso, che esclude la tenuta di qualsiasi libro o registro ad eccezione della conservazione e numerazione delle fatture di acquisto e di vendita, nonché l’esonero dagli studi di settore, redditometro e spesometro.

Il requisito patrimoniale principale dell’attuale regime è il non aver conseguito, tra l’altro, nell’anno precedente, ricavi superiori ad euro 65.000,00.

Ma come vanno conteggiati ed intesi tali euro 65.000,00 di fatturato massimo ai fini del regime fiscale in oggetto? La domanda è, in verità, piuttosto importante poiché il superamento della soglia comporta, per il contribuente, la fuoriuscita dal regime agevolato e il transito nel regime ordinario, con tutte le conseguenze del caso.

Da articoli a stampa, anche specializzata e anche abbastanza autorevoli, che periodicamente compaiono sul punto, si legge una discreta confusione su un punto di grande importanza, ossia l’applicabilità, ai contribuenti in regime forfettario, dell’art. 15, co. 1, n. 3 D.P.R. 633/1972 (cd. Testo Unico IVA) che, come noto, prevede che “non concorrono a formare la base imponibile:

(…)

3) le somme dovute a titolo di rimborso delle anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, purché regolarmente documentate”, e dunque l’esclusione dal calcolo dell’imponibile del riaddebito di somme che il contribuente anticipa in nome e per conto del cliente e pacificamente a lui riferibili.

Tutti i professionisti sostengono, per conto del cliente, spese per lo svolgimento dell’incarico, che poi riaddebitano allo stesso quali “spese esenti” o “anticipazioni non imponibili”. Non parliamo di spese di produzione di reddito, ma di spese cd. vive, come bolli, postali, tasse su singoli adempimenti e altre voci di spesa che il contribuente non sostiene per lo svolgimento della propria attività, ma in sostituzione del cliente per l’adempimento del singolo mandato da questi ricevuto, e che il cliente potrebbe, avendone le competenze, sostenere in proprio consegnando al professionista la prova del pagamento.

Nel regime IVA ordinario, tali spese sono espressamente escluse dal computo dell’imponibile in forza del citato art. 15, co. 1, n. 3 D.P.R. 633/1972; tuttavia è sorto un contrasto ancora non risolto sull’applicabilità di tale esclusione al contribuente in regime forfettario.

Da un lato, infatti, si sostiene che tale esclusione sia applicabile anche ai forfettari sia in ragione di un criterio di logica (non avrebbe senso considerare “componente positivo di reddito” il rimborso di una spesa anticipata che non produce alcun arricchimento per il contribuente), sia in ragione della lettura coordinata delle norme.

Le disposizioni rilevanti, infatti, ossia l’art. 1, co. 54-89, L. 190/2014 prevedono quanto segue:

“58. Ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, i contribuenti di cui al comma 54: (…) d) applicano alle prestazioni di servizi ricevute da soggetti non residenti o rese ai medesimi gli articoli 7-ter e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni;

64. I soggetti di cui al comma 54 determinano il reddito imponibile applicando all’ammontare dei ricavi o dei compensi percepiti il coefficiente di redditività nella misura indicata nell’allegato n. 4 (…). I contributi previdenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge, compresi quelli corrisposti per conto dei collaboratori dell’impresa familiare fiscalmente a carico, ai sensi dell’articolo 12 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, e successive modificazioni, ovvero, se non fiscalmente a carico, qualora il titolare non abbia esercitato il diritto di rivalsa sui collaboratori stessi, si deducono dal reddito determinato ai sensi del presente comma (…)”.

Da quanto ridetto si deduce che i contribuenti in regime forfettario:

Calcolano il reddito imponibile applicando il coefficiente di redditività all’ammontare dei compensi (ricavi per le imprese);

Applicano l’art. 7 ter e ss. D.P.R. 633/1972, e quindi, apparentemente, anche l’art. 15, co. 1, n. 3 sulle anticipazioni.

Dall’altro lato, invece, si sostiene che proprio le norme citate, prevedendo che la determinazione dell’imponibile avvenga mediante applicazione del coefficiente di redditività e che sia permessa la sola deduzione dei contributi previdenziali, impediscano l’applicazione dell’art. 15 poiché questo prevede delle deduzioni diverse da quelle esplicitamente considerate dalle disposizioni e, infine, perché comunque tali erogazioni costituiscono, per il professionista, dei “ricavi”.

A opinione di chi scrive il contrasto va risolto in senso affermativo alla applicabilità dell’art. 15 anche al regime forfettario, trattandosi di norma non esplicitamente esclusa dalle disposizioni e rientrante nelle previsioni del co. 58, ed essendo le anticipazioni di che trattasi assolutamente non qualificabili come compensi trattandosi di somme anticipate per conto del cliente e a lui pacificamente riferibili che non possono, da un punto di vista logico, costituire imponibile fiscale (e previdenziale) in ragione di quanto detto e pertanto si ritiene che sia possibile escludere dal computo dei componenti positivi di reddito ex art. 15, co. 1, n. 3, D.P.R. 633/1972 le spese documentate anticipate in nome e per conto del cliente, che sono poi recuperati mediante addebito in fattura sotto la voce “spese esenti” o “anticipazioni non imponibili”, e che pacificamente non costituiscono “compensi”, mentre la voce “ricavi” ha poco senso nel contesto di cui si parla poiché essi attengono non all’attività professionale o di lavoro autonomo ma al reddito d’impresa.

Interrogata sul punto con l’interpello 907-107/2020 ex art. 11, co. 1, lett. a), L. 212/2000, è finalmente intervenuta a dare chiarezza l’Agenzia delle Entrate la quale ha specificato che, con riferimento ai redditi di lavoro autonomo, l’amministrazione finanziaria, con circolare 58/E del 18.6.2001, al paragrafo 2.2, aveva in allora precisato che tra i compensi del professionista rientrano i proventi percepiti sotto forma di rimborsi dispese inerenti all’attività, con esclusione dei rimborsi relativi a spese, analiticamente dettagliate, anticipate in nome e per conto del cliente. Tale situazione impone che i rimborsi, salvo quelli anticipati in nome e per conto del cliente, siano trattati alla stregua degli altri compensi”.

Ancora, con la Risoluzione 163/E del 22.10.2001, è stato ulteriormente chiarito che “i compensi che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo sono costituiti dalle erogazioni che i clienti corrispondono ai professionisti ed artisti nel periodo d’imposta considerato. Nella nozione di compenso vanno inclusi anche i proventi percepiti sotto forma di rimborsi di spese inerenti all’attività, con esclusione di quelli relativi a spese analiticamente dettagliate, anticipate in nome e per conto del cliente.

Peraltro anche le risoluzioni 59 del 17.4.1996 e 164/E del 31.7.2003, pur se rese in ambito IVA, avevano precisato che il presupposto essenziale affinché un determinato importo, riaddebitato al committente, possa essere escluso dalla base imponibile IVA è costituito dalla diretta insorgenza nella sfera patrimoniale del committente dell’onere di cui trattasi: in presenza di tale presupposto, infatti, può ravvisarsi un pagamento effettuato in nome e per conto di terzi e, conseguentemente, può escludersi la natura di corrispettivo dell’importo riaddebitato al committente, in quanto debito sorto direttamente nella sfera patrimoniale di quest’ultimo.

Tale risposta chiarisce definitivamente che, anche per i contribuenti in regime forfettario, opera pienamente l’art. 15, co. 1, n. 3 D.P.R. 633/1972 e dunque le anticipazioni effettuate in nome e per conto del cliente, purché debitamente documentate, non rappresentano un componente positivo di reddito per il professionista. In un prossimo articolo verrà esaminato come tali voci debbano essere trattate ai fini della compilazione della certificazione unica.

Legge Gelli-Bianco applicabile anche in assenza dei decreti attuativi

Legge Gelli-Bianco applicabile anche in assenza dei decreti attuativi

Risultato immagini per responsabilità sanitaria

Il Tribunale di Venezia ribadisce l’applicabilità degli strumenti processuali previsti dalla L. Gelli-Bianco anche in assenza di decreti attuativi che, ricordiamo, a quasi tre anni di distanza dalla promulgazione della Legge, non sono ancora stati emanati.

La Legge 24/2017, cd. Gelli-Bianco recante “disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” aveva profondamente innovato il settore della responsabilità medica e sanitaria finalmente codificando le conclusioni a cui era da tempo giusta la giurisprudenza di merito e di legittimità sull’assetto delle azioni nei confronti delle strutture sanitarie e della responsabilità di queste ultime.

Muovendo dall’elaborazione pretoria del cd. “contratto atipico di spedalità”, la Legge aveva riconosciuto la responsabilità ex art. 1218 e 1228 c.c. (di natura contrattuale) in capo alla struttura, ed ex art. 2043 c.c. (aquiliana) in capo al sanitario direttamente responsabile lasciando al danneggiato la scelta se agire contro l’uno e contro l’altro.

Peraltro, la Legge, all’art. 8, ha prefigurato uno speciale percorso processuale per tale tipo di azione, che prevede la facoltà per l’attore di scegliere tra la preventiva mediazione e il ricorso per consulenza tecnica ai fini della composizione della lite, ex art. 696 bis c.p.c., già prima della sua promulgazione strumento molto usato nella pratica giudiziaria, ed ora codificato come primo passo, seguito poi dal ricorso ex art. 702 bis ove la conciliazione non riesca.

La legge, peraltro, nello spingere al massimo la finalità conciliativa, aveva previsto che fin dall’inizio l’assicuratore dell’azienda sanitaria (che deve per Legge essere pubblicamente indicato assieme agli estremi di polizza nel sito internet dell’azienda sanitaria stessa) fosse parte dell’accertamento tecnico in modo da poter fin dall’inizio formulare eventuali proposte transattive da un lato, e dall’altro, l’accertamento gli fosse opponibile in caso di mancata conciliazione.

Per di più, la legge qualifica la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva “obbligatorio” per tutte le parti, riservando un trattamento particolarmente severo alla parte che, convenuta in giudizio, non partecipi: “in caso di mancata partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione”.

Il quadro normativo in esame, dunque, spinge fortemente per una conciliazione nella prima fase facilitandola al massimo mediante la previsione della partecipazione della compagnia di assicurazioni fin dall’inizio ed evitando inutili rinvii legati a chiamate in causa di terzi, autorizzando il ricorrente alla citazione diretta.

Fin dall’inizio si erano posti due problemi interpretativi di notevole portata: che sorte avrebbero avuto le azioni iniziate dopo l’entrata in vigore della Legge, ma riferite a fatti precedenti la stessa?

E ancora, cosa avrebbero dovuto fare i danneggiati in attesa che fossero emanati i decreti attuativi che il legislatore non ha ancora voluto emanare dopo quasi tre anni dall’entrata in vigore della Legge?

Quanto alla prima domanda, è stato ritenuto in dottrina e in giurisprudenza che, pur essendo pacifico che al fatto genetico della responsabilità risalente a prima delle Legge Gelli Bianco (L. 24/2017) la disciplina sostanziale applicabile fosse quella precedente, con tutta la sua conseguente elaborazione giurisprudenziale in tema di responsabilità della struttura in forza del cd. contratto atipico di “spedalità”, fossero purtuttavia applicabili le norme di natura processuale prevedute dalla L. 24/2017 proprio perché di natura non sostanziale, ma destinate a regolare il rapporto processuale, con la conseguenza che esse si applicano a tutti i procedimenti promossi successivamente, indipendentemente dal momento del fatto genetico della responsabilità.

Quanto alla seconda, nel costituirsi in giudizio gli assicuratori avevano più volte contestato la carenza di legittimazione legata al fatto che le disposizioni relative all’azione diretta del soggetto danneggiato nei confronti dell’impresa di assicurazione, stando alla norma, “si applicano a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 6 dell’art. 10 con il quale sono determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie”, che, come noto, ad oggi non è stato ancora emanato.

Tuttavia, era stato osservato fin dall’inizio che tale lacuna legislativa, ossia la mancata adozione del decreto attuativo ex art. 1, co. 6, al massimo avrebbe escluso la sussistenza dei presupposti per l’irrogazione della sanzione di cui all’art. 8, ma non faceva venir meno l’obbligatoria partecipazione al procedimento di tutti i soggetti coinvolti.

Su tale linea si erano già espressi numerosi giudici di merito, tra cui Trib. Verona, 17.5.2018 e Trib. Venezia, 16.7.2018.

Proprio il Tribunale di Venezia, con ordinanza del 5.2.2020 (G.I. dott. Simone) ha summarizzato e indicato molto chiaramente le condizioni di applicabilità della L. 24/2017 in mancanza dei decreti attuativi.

La vicenda trae origine da un ricorso ex art. 696 bis c.p.c. e art. 8 L. 24/2017 con cui i ricorrenti, patrocinati dall’Avv. Marco Biagioli, lamentando un errore diagnostico che aveva condotto a terapie inadeguate e conseguente danno alla salute, convenivano in giudizio l’azienda sanitaria e il proprio assicuratore per la preventiva fase della consulenza tecnica.

L’assicuratore si costituiva in giudizio eccependo carenza di legittimazione per la mancata adozione del decreto attuativo ex art. 1, co. 6, che a suo dire avrebbe escluso l’azione diretta, e perché la SIR della polizza aveva un valore di 750.000 euro, lasciando altrimenti la gestione della controversia all’azienda sanitaria.

Il Tribunale, dopo aver udito le repliche dei ricorrenti, rilevava che “pur non essendo stata ancora varato il decreto previsto dall’art. 10, comma 6, l. 24/2017 circa <<i requisiti minimi delle polizze assicurative>>, attesa la chiara finalità del legislatore di individuare un percorso processuale teso a propiziare, ove possibile, la conciliazione della instauranda controversia, non è dirimente l’assenza di azione diretta da parte del soggetto (asseritamente) danneggiato verso la compagnia della struttura” e che dunque “nell’indicata traiettoria, volta a favorire la massima e fattiva partecipazione alla procedura ex art. 696 bis c.p.c., l’art. 8, comma 4, prevede un meccanismo sanzionatorio, che evidenzia il chiaro intento del legislatore di consentire lo svolgimento della consulenza nel pieno contraddittorio di tutti i soggetti potenzialmente interessati anche al fine di rendere opponibile il disposto accertamento, sì da evitare la reiterazione nella fase di merito”.

Quanto alle eccezioni dell’assicuratore, aggiungeva che “non è dirimente quanto osservato dalla compagnia in merito alla portata dell’obbligo di partecipazione al procedimento ex art. 15, comma 4, l. 24/2017, posto che, fermo il menzionato rafforzamento della finalità conciliativa, la mancata adozione del decreto attuativo ex art. 1, comma 6, s.l. al più potrebbe portare ad escludere la sussistenza dei presupposti per l’erogazione della prevista sanzione, ma nondimeno rimane il dato della obbligatoria partecipazione al procedimento di tutti i soggetti indicati dal ricorrente” e che “non è dubitabile che l’impianto della legge 24/2017 sia connotato da una esigenza di accelerazione, che non può essere frustrato dal ritardo nell’emanazione della normativa di attuazione con il rischio di un incremento dei costi processuali in caso di reiterazione dell’accertamento nella fase di merito” (Trib. Venezia, 5.2.2020).

Il Giudice pertanto, in accoglimento del ricorso e respingendo le opposte eccezioni, nominava il consulente tecnico d’ufficio e formulava il quesito.

La pronuncia, dunque, conferma la bontà del percorso scelto dal difensore e le conclusioni della giurisprudenza più accorta che aveva osservato come la finalità acceleratoria e deflattiva del procedimento non potesse essere cancellata a causa dell’inerzia nell’emanazione del decreto attuativo e che la predisposizione di un impianto processuale teso alla conciliazione, favorita sotto molti punti di vista, dovesse essere comunque salvaguardata. Tale pronuncia traccia nuovamente una linea importantissima per chi, già colpito da sciagurati eventi quali l’errore medico e il correlativo danno alla salute, si vedeva opporre dagli assicuratori delle aziende sanitarie eccezioni meramente dilatorie e defatigatorie, rallentando il raggiungimento del risultato ultimo, ossia della risoluzione della lite con la corresponsione del giusto risarcimento.

Associazione in locali commerciali: per il Consiglio di Stato è possibile

Associazione in locali commerciali: per il Consiglio di Stato è possibile

Il Consiglio di Stato prende una importante posizione in tema di uso di immobili con destinazione d’uso commerciale che siano stati adibiti, senza esecuzione di opere, a luoghi di culto o sedi di associazioni religiose.

La vicenda trae origine da una ordinanza del Comune di Venezia del 2018 con cui veniva disposto a carico di una associazione religiosa locale, che si riuniva in un locale precedentemente adibito a negozio e con destinazione d’uso commerciale, e che l’associazione stessa regolarmente conduceva in locazione non residenziale, di “ripristinare” la destinazione d’uso commerciale, asseritamente mutata rispetto all’uso effettivo, di luogo di riunione a fini religiosi.

Stando alla prospettazione del Comune, l’uso a fini religiosi o culturali è incompatibile con la destinazione d’uso commerciale e che, dunque, l’associazione avrebbe dovuto chiedere un conforme titolo edilizio per il mutamento di destinazione d’uso (mutamento che lo stesso Comune avrebbe, peraltro, ritenuto impossibile in ragione delle limitazioni della zona urbanistica).

L’associazione, patrocinata dagli Avvocati Marco Biagioli e Caterina Caregnato ricorreva al TAR Veneto evidenziando l’illegittimità dell’ordinanza sotto molteplici profili, tra cui la non rilevanza della destinazione d’uso in relazione all’uso “religioso”, sulla base della corretta interpretazione dell’art. 23 ter T.U. Edilizia, ossia la norma che direttamente dispone quando sia necessario ottenere un titolo edilizio.

Partendo da una accurata interpretazione di una pronuncia della Corte di Cassazione, secondo cui “per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di cui al D.P.R. 380/2001, e cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non determini l’assegnazione dell’immobile a una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico urbanistico nel senso anzidetto” (Cass. 34812/2017), i ricorrenti sostenevano l’irrilevanza urbanistica del contestato mutamento di destinazione d’uso.

In primo grado il TAR Veneto rigettava il ricorso sostenendo che l’associazione avrebbe dovuto ottenere un titolo abilitativo edilizio per l’esercizio del culto nel negozio de quo.

Avverso tale sentenza l’associazione interponeva appello al Consiglio di Stato chiedendo l’integrale riforma della prima pronuncia e la sospensione medio tempore del provvedimento impugnato.

Con ordinanza cautelare 2788/2019 del 30.5.2019 il Consiglio di Stato accoglieva la richiesta di sospensiva motivando in piena aderenza agli argomenti di parte ricorrente: “considerato che, ad un primo sommario esame proprio della fase cautelare, il contestato mutamento di destinazione d’uso, non appare urbanisticamente rilevante”.

La pronuncia, come si capisce, non riguarda tanto il pericolo che derivi all’associazione dall’esecuzione del provvedimento, ma il merito della vicenda, ossia l’esistenza o meno del diritto.

La motivazione, peraltro, ricalca pienamente quanto sostenuto dall’associazione appellante, ossia che la destinazione a luogo di culto sia in sé astrattamente compatibile con tutte le categorie funzionali di cui all’art. 23 ter D.P.R. 380/2001, a condizione che non siano eseguite opere che richiedano di per sé stesse il conforme titolo abilitativo.

Tale pronuncia è destinata a tracciare una linea importantissima per la vita delle associazioni religiose e culturali che svolgono una parte importante nella società ma che molto spesso sono andate incontro a interventi legislativi o amministrativi ritorsivi e volutamente discriminatori, sovente mascherati sotto la disciplina edilizia urbanistica.

Lavori non eseguiti a regola d’arte, come agire

Lavori non eseguiti a regola d’arte, come agire

Eseguire restauri in casa è spesso un impegno economico oneroso e anche un notevole disagio personale vista la necessità di vivere temporaneamente in un ambiente in parte inagibile.
Ma può anche accadere che i restauri a lungo pianificati e su cui si sono investite cifre importanti non vengano eseguiti in conformità alle previsioni del contratto di appalto o alla regola dell’arte.
Che fare in questi casi?

Il primo e fondamentale consiglio è il seguente: evitare di trovarsi nella situazione descritta e un buon sistema per prevenire il più possibile la possibilità di scoprire difetti e vizi quando sia già tardi è nominare quale direttore dei lavori un professionista, architetto o ingegnere, di propria fiducia (non dell’impresa) che segua passo per passo l’esecuzione delle opere e possa intervenire tempestivamente ove scorga difformità o lavorazioni male eseguite.
Si tratterà di un piccolo investimento in più, ma potrà prevenire futuri contenziosi.

Se però nonostante questo, o anche avendolo nominato, difetti vi siano lo stesso, sarà necessario rivolgersi a un Avvocato competente in contrattualistica e, nello specifico, in contratti di appalto.

Partiamo dal quadro di riferimento: il privato consumatore che incarichi una impresa di eseguire dei lavori in casa conclude un contratto di appalto.
L’appalto, secondo l’art. 1655 del codice civile è il contratto con cui “una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”. In altre parole è il contratto con cui una parte (committente), affida all’altra (appaltatore) l’incarico di compiere un’opera o un servizio e per questo gli paga il corrispettivo: l’esecuzione dell’opera, come l’acquisto dei materiali, la messa a disposizione della manodopera, sono a carico dell’appaltatore, e a suo rischio, nel senso che limitate oscillazioni nei costi che aveva preventivato si scaricheranno su di lui.
Già da questa definizione si capiscono due cose: l’appaltatore deve necessariamente essere un imprenditore (poiché solo l’imprenditore è, giuridicamente, colui che organizza i mezzi necessari allo svolgimento dell’attività economica con assunzione di rischio – cfr. art. 2082 c.c.) e su di lui grava una obbligazione di risultato (poiché sopporta il rischio), in quanto è tenuto non solo a predisporre i mezzi necessari per realizzare l’opera ma anche a raggiungere quel risultato, e proprio quello, previsto dal contratto, risultato che deve essere raggiunto in applicazione del criterio della diligenza professionale.
Da un lato, quindi, è chiaro il potere dell’appaltatore di gestire autonomamente le fasi preparatorie ed esecutive, ma dall’altro, il pieno adempimento coincide solo con la completa realizzazione dell’opera, la quale non deve presentare vizi o difformità rispetto al progetto concordato dagli stipulanti e, salvo casi fortuiti o forze maggiori, deve essere consegnata nel rispetto dei tempi previsti.
D’altro canto l’unico obbligo del committente è di pagare gli acconti, ove previsti, nei tempi concordati e rendere possibile, o comunque non ostacolare, la realizzazione dell’opera da parte dell’appaltatore.

La controversia dunque nasce qualora l’appaltatore non rispetti questi canoni e, quindi, non sia stata rispettata la regola dell’arte o l’opera eseguita sia difforme da quella progettata e convenuta.

In questo caso il committente ha due strade: l’una è la risoluzione per inadempimento da un lato, e l’azione prevista dagli art. 1667-1668 dall’altro.

Per quanto concerne la prima, ossia la risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c., le condizioni per ottenerla sono state ben descritte dalla Suprema Corte ha già avuto modo di rilevare che l’esecuzione di “opere affette da gravi difetti” e altresì l’abbandono del cantiere costituiscono le condizioni di base perché sia pronunciata la risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore (cfr. Cass. 27298/2013) e la conseguente condanna al risarcimento del danno.
Quanto alle conseguenze di tale risoluzione, esse si muovono in duplice direzione: restitutoria e risarcitoria.
Quanto alla parte restitutoria, la risoluzione comporterà la restituzione al committente di tutti gli importi corrisposti all’appaltatore a titolo di acconto, salva la parte di lavori eseguiti e utilmente utilizzabile.
Quanto alla parte risarcitoria, l’appaltatore dovrà corrispondere al committente un risarcimento per i danni patiti a causa della sua negligenza, danno che in linea di massima coincide con il costo degli interventi di demolizione di opere difettose e con la differenza di preventivo tra quello che l’appaltatore stesso avrebbe preteso, e quello che sarà preteso da chi realizzerà effettivamente l’opera.

L’altra possibilità è l’azione che fa leva sulla garanzia che deve fornire l’appaltatore ex art. 1667 c.c.: “l’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera. La garanzia non è dovuta se il committente ha accettato l’opera e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purché in questo caso, non siano stati in malafede taciuti dall’appaltatore.
Il committente deve, a pena di decadenza, denunziare all’appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta. La denunzia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati.
L’azione contro l’appaltatore si prescrive in due anni dal giorno della consegna dell’opera. Il committente convenuto per il pagamento può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunciati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna”, garanzia secondo la quale “il committente può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore” (art. 1668 c.c.).
Tale seconda azione, come si vede, tenta di “salvare” l’opera spingendo l’appaltatore a renderla conforme, ma è anche soggetta a vari vincoli: la decadenza dalla denuncia e la prescrizione dell’azione, che possono renderla poco appetibile specialmente se, come spesso accade, la fiducia nell’appaltatore sia venuta meno.
Peraltro tale zione non è sempre attivabile, l’art. 1668, co. 2, c.c., specifica, infatti, che “se però le difformità o i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto”, il che riporta alla soluzione sopra indicata.
Tale seconda azione, comunque, appare più percorribile ove si tratti di piccole difformità, la cui sistemazione non richieda interventi radicali o modifiche particolarmente invasive, non essendovi nessuna garanzia che quello che è stato fatto male la prima volta, venga poi fatto bene la seconda.

Peraltro, anche nel caso della risoluzione, ciò che di buono è stato fatto rimarrà comunque in situ, dovendo procedere alla demolizione solo di ciò che non sia in nessun modo salvabile.

Sia che si opti per una, sia che si opti per l’altra, decisione che deve essere ponderata seguendo le indicazioni di un Avvocato esperto in materia, anche considerando i costi e i benefici, e la sussistenza delle condizioni di legge per agire, il primo passo è contattare un professionista, architetto o ingegnere, che rediga una prima relazione sullo stato dei luoghi e di esecuzione delle opere, confrontando quanto è previsto dal contratto di appalto e dal capitolato di oneri con ciò che è stato realizzato, onde “fotografare” la situazione e fornire al giudice un quadro completo.

Qualora poi valga la pena di tentare una soluzione conciliativa, si può presentare al Tribunale, in luogo della causa ordinaria, un ricorso per ottenere una consulenza tecnica d’ufficio, ossia una perizia fatta da un tecnico indipendente nominato dal Tribunale, che provveda anche a formulare una proposta conciliativa liberamente valutabile dalle parti; ove la conciliazione abbia successo, si potrà evitare il giudizio, ove invece non abbia successo, nel futuro giudizio le parti potranno giovarsi di un elaborato peritale fatto sotto la supervisione del Tribunale e avente valore di prova.

Tale strada, sebbene in forma leggermente diversa, può anche essere percorsa laddove, per il tipo di lavori o di fabbricato in argomento, sia necessario “fotografare” la situazione subito perché sono richieste delle modifiche urgenti allo stato dei luoghi (ad esempio per svolgere lavori improcrastinabili di messa in sicurezza).

Tali circostanze devono comunque essere valutate congiuntamente dall’Avvocato e dall’architetto o ingegnere, onde individuare la soluzione più adeguata al caso concreto.

E se l’inquilino non paga il canone?

E se l’inquilino non paga il canone?

Concedere in locazione un immobile è il modo più semplice per metterlo a reddito, ma in alcuni casi può trasformarsi in un bel grattacapo se l’inquilino dovesse smettere improvvisamente di pagare il canone di locazione.

Che si deve fare in questi casi?
Il primo passo, naturalmente, sarà quello di inviargli una raccomandata A/R, preferibilmente predisposta da un Avvocato, per sollecitarlo a onorare le proprie obbligazioni.
Tuttavia, può ben accadere che, nonostante i solleciti, l’inquilino continui a non pagare, e allora l’unica soluzione è ottenere nel più breve tempo possibile il rilascio dell’immobile e un titolo esecutivo per avviare l’esecuzione forzata per il recupero del dovuto.

In questi casi l’ordinamento mette a disposizione un rimedio di giustizia piuttosto rapido ed efficiente: il procedimento per convalida di sfratto.
Tale procedimento, quando si riferisce allo sfratto per morosità (ossia allo sfratto legato al mancato pagamento del canone), è attivabile a condizione che l’inquilino si sia reso moroso del pagamento di almeno un rateo del canone di locazione.
Il procedimento inizia con un atto di intimazione di sfratto per morosità notificato all’inquilino con contestuale citazione all’udienza di convalida che dovrà essere fissata almeno venti giorni dopo la notifica dell’atto.

All’udienza di convalida possono accadere tre cose:
L’inquilino non compare: in questo caso il giudice convalida lo sfratto e fissa il termine entro cui l’inquilino dovrà lasciare libero l’immobile;
L’inquilino compare, ma non si oppone allo sfratto: anche in questo caso il giudice convalida lo sfratto e fissa il termine entro cui l’inquilino dovrà lasciare libero l’immobile;
L’inquilino compare e si oppone, contestando o meno la morosità: in questo ultimo caso il giudice metterà la causa in istruttoria e avrà inizio un vero e proprio processo civile, nelle forme del cd. rito locatizio (una forma processuale un po’ più semplice del processo civile ordinario), dopo aver tentato la mediazione civile tra le parti, avanti a un mediatore terzo. Il giudice, comunque, a seconda che l’opposizione appaia “seria” in quanto fondata su una prova scritta, o meno, potrà ugualmente convalidare lo sfratto “con riserva”.

In tutti i casi, la convalida non può aver luogo se il locatore non dichiara la persistenza della morosità o se l’inquilino la sani all’udienza.
Nel solo caso di immobili ad uso abitativo, peraltro, la L. 392/1978 (cd. sull’equo canone) consente al conduttore di chiedere al giudice un termine, non superiore a novanta giorni, entro cui sanare la morosità e pagare tutte le spese del giudizio, impedendo così la convalida. Se l’inquilino chiede la concessione di tale termine e il giudice ritiene vi sia possibilità che la sanatoria avvenga, verrà fissata una nuova udienza entro la quale l’inquilino dovrà aver sanato la morosità e le spese di giudizio, oltre ad aver pagato i canoni scaduti nel frattempo.
A questa nuova udienza, se l’inquilino avrà regolarizzato la propria posizione, il procedimento si estinguerà, altrimenti il giudice pronuncerà l’ordinanza di convalida, ossia il provvedimento con cui rende concretamente attivabile lo sfratto, imponendo all’inquilino di rilasciare l’immobile entro una certa data.

In questa fase il locatore, se non lo abbia già fatto prima, contestualmente all’intimazione di sfratto, potrà chiedere al giudice di pronunciare anche un decreto ingiuntivo per tutti i canoni non pagati e quelli che scadranno fino al rilascio, oltre alle spese di giustizia e agli interessi.

Il conduttore avrà a quel punto a sua disposizione due titoli esecutivi, uno per il pagamento delle somme (il decreto ingiuntivo) e uno per il rilascio dell’immobile (l’ordinanza di convalida), entrambi immediatamente esecutivi e che potrà notificare all’inquilino insieme al precetto, ossia all’intimazione a pagare e a rilasciare l’immobile ancora detenuto.

Qualora l’inquilino non ottemperi, sarà necessario procedere all’esecuzione forzata vera e propria, ossia allo sloggio dell’inquilino e al pignoramento dei suoi beni, cosa di cui si occupa l’ufficiale giudiziario.

A seconda dei Tribunali, tutto il procedimento giudiziale, e salve eventuali opposizioni, dovrebbe restare contenuto entro un termine relativamente breve, comunque non superiore all’anno.
Diverso il caso dell’eventuale esecuzione forzata, che potrebbe richiedere tempi un po’ più lunghi a seconda dell’organizzazione e del carico di lavoro degli Ufficiali Giudiziari competenti per zona.

Per tutta la procedura è comunque necessario rivolgersi a un Avvocato competente in tema di locazioni che, a seconda delle circostanze, saprà dare le indicazioni e i consigli più opportuni su come procedere.

Un’ultima importante nota: il contratto di locazione deve, a pena di nullità, essere registrato.
Qualora non abbiate registrato il contratto di locazione, tutto il procedimento che precede è esposto al rischio di una opposizione per nullità del contratto di locazione originario. Sul punto la giurisprudenza si è divisa nella possibilità di proseguire nella strada indicata, per cui l’Avvocato dovrà attentamente valutare le circostanze e valutare se non sia opportuno procedere in forma diversa.

Guida in stato di ebbrezza: come difendersi?

Guida in stato di ebbrezza: come difendersi?

Una doverosa premessa: chi guida non dovrebbe consumare alcolici prima di mettersi al volante e il presente articolo non vuole in alcun modo incoraggiare tale comportamento.

Tuttavia può accadere che, per i motivi più vari, un guidatore sottoposto alla prova dell’etilometro risulti aver superato la soglia di alcol nel sangue prevista dalla Legge per essere idonei alla guida.
Le norme che impongono il divieto di guidare in stato di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di alcol sono l’articolo 186 e 186-bis del Codice della Strada. Dispone il primo: “è vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche”.
La norma stabilisce poi tre soglie di punibilità: se il tasso alcolemico è superiore a 0,5 ma non superiore a 0,8 grammi per litro, l’automobilista è sanzionato con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da € 532 a € 2.127 e con la sospensione della patente di guida da tre a sei mesi.
Sopra gli 0,8 g/l sono previste delle sanzioni penali e la guida in stato di ebbrezza costituisce reato.
Se, infatti, il tasso alcolemico è superiore a 0,8 ma non superiore a 1,5 grammi per litro la sanzione è l’ammenda da euro 800 a euro 3.200 e l’arresto fino a sei mesi, oltre alla sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno. Se, infine, il tasso alcolemico è superiore a 1,5 grammi per litro (g/l) la sanzione è l’ammenda da euro 1.500 a euro 6.000 e l’arresto da sei mesi ad un anno, oltre alla sospensione della patente di guida da uno a due anni.
Il trattamento sanzionatorio è ulteriormente inasprito per chi ripete tali comportamenti nel tempo: in caso di recidiva entro i due anni è prevista la revoca della patente di guida.
Peraltro, nel pronunciare la condanna, il giudice, anche in caso di sospensione condizionale, dispone la confisca del veicolo o, qualora il veicolo non fosse del trasgressore, con disposizione di dubbia costituzionalità, il raddoppio della sospensione della patente.
Addirittura, se il conducente in stato di ebbrezza provoca un sinistro, tutte le sanzioni sono raddoppiate ed è previsto il fermo amministrativo del veicolo per centottanta giorni, salvo che appartenga a persona estranea all’illecito.
L’art. 186, co. 2-sexies, e 186-bis, prevedono ulteriori aggravanti se l’infrazione è commessa di notte, da parte di neo patentati, guidatori infraventunenni o conducenti professionisti.
Peraltro tutte le sanzioni accessorie si applicano, per espressa disposizione, anche in caso di richiesta di applicazione della pena (cd. patteggiamento) e le attenuanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti alle aggravanti.

La norma, tuttavia, offre la possibilità di difendersi da tale severissimo trattamento sanzionatorio e prevede una possibilità per il trasgressore, ossia il lavoro di pubblica utilità.
Se, infatti, non è stato cagionato un sinistro stradale, le pene detentive e pecuniarie possono essere sostituite con il lavoro di pubblica utilità (ossia la prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività).
La norma dispone che la conversione sia fatta in modo che il lavoro abbia una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata e ragguagliando 250 euro ad un giorno di lavoro di pubblica utilità.
Molti sono i vantaggi: infatti, allo svolgimento con esito positivo del lavoro il giudice dichiara estinto il reato, dispone il dimezzamento della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato.
Attenzione però: per i recidivi questa possibilità non vale, infatti, il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di una volta.

Per i recidivi o per chi abbia cagionato un sinistro stradale vi è una diversa possibilità, ossia l’istituto della messa alla prova, previsto dagli artt. 168 bis, ter e quater del codice penale: “nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova”.
L’istituto prevede la cosiddetta prova, ossia la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e il risarcimento del danno. A ciò si aggiunge l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento (sorvegliato) di attività di volontariato o di altro rilievo sociale, o il mantenimento di specifici comportamenti, o il divieto di mantenerne altri o frequentare determinati posti con altresì la prestazione di lavoro di pubblica utilità, non retribuito, per una durata di almeno dieci giorni.
La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta, ma, all’esito positivo della prova, comporta la dichiarazione di estinzione del reato.
Per chi, dunque, sia stato fermato per guida in stato di ebbrezza, esistono diverse possibilità di impedire la pronuncia di una condanna penale, con tutte le gravi conseguenze del caso.

Deve anche tenersi presente che la Cassazione, a sezioni unite, ha comunque ritenuto applicabile alla guida in stato di ebbrezza la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p., indicando anche il criterio di applicazione: “resta pur sempre spazio per apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato ed al solo fine della ponderazione in ordine alla gravità dell’illecito, quale sia […] il concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al bene tutelato” (Cass. 13681/2016).

Infine, non pensiate, qualora siate stati fermati dalle forze dell’ordine e temiate di essere in condizione di aver superato le soglie consentite, di evitare tutte le conseguenze negative semplicemente rifiutandovi di far eseguire l’accertamento.
In tal caso, infatti, la conseguenza è l’applicazione della sanzione più alta, come disposto dal co. 7 dell’art. 186 CdS: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, in caso di rifiuto dell’accertamento di cui ai commi 3, 4 o 5, il conducente è punito con le pene di cui al comma 2, lettera c). La condanna per il reato di cui al periodo che precede comporta la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo da sei mesi a due anni e della confisca del veicolo con le stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione”.

Pirati della strada. Cosa fare se si resta coinvolti in un incidente con veicolo in fuga

Pirati della strada. Cosa fare se si resta coinvolti in un incidente con veicolo in fuga

Essere coinvolti in un incidente con un veicolo ignoto o che si dilegua dopo il sinistro è una brutta disavventura, ma esistono forme di tutela dell’utente della strada incolpevole.

Per prima cosa chiariamo un punto: fermarsi in caso di sinistro è obbligatorio. L’art. 189, comma 1, del Codice della Strada, infatti chiarisce che “l’utente della strada, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento, ha l’obbligo di fermarsi e di prestare l’assistenza occorrente a coloro che, eventualmente, abbiano subito danno alla persona”. I successivi commi 5 e 6 specificano le sanzioni, amministrativa in caso di incidente con soli danni alle cose e penale in caso di incidente con danni alle persone.
La fuga, per di più, costituisce specifica aggravante dei delitti di omicidio stradale e lesioni personali gravi o gravissime stradali (589 bis e ter e 590 bis e ter del Codice Penale).

Ma cosa deve fare l’utente della strada vittima dell’incidente se comunque il veicolo che ha causato si desse alla fuga?
Per garantire tutela anche alle vittime di veicoli pirata la Legge 990/1969 ha istituito il fondo di garanzia per le vittime della strada (FGVS). Il Fondo, gestito dalla CONSAP (una società a capitale pubblico) e operativamente amministrato da compagnie di assicurazione designate dall’IVASS, risarcisce i danni alla persona e, in casi particolarmente gravi, anche alle cose, delle vittime di sinistri causati da veicoli pirata o non assicurati, garantendo protezione all’infortunato incolpevole.

Purtroppo la procedura per ottenere il giusto risarcimento non è agevole, e piena di insidie: il Fondo, infatti, non è una “’assicurazione del pirata della strada” e opera secondo logiche molto stringenti.

Per prima cosa, dunque, se siete rimasti vittima di un incidente con un veicolo pirata, dovete allertare i soccorsi: forze dell’ordine (per gli opportuni rilievi) e sanitari (per la refertazione delle lesioni subite).
Chiamate dunque la polizia e recatevi quanto prima al pronto soccorso, in questo modo verranno operati i corretti rilievi del luogo e delle circostanze del sinistro, e verranno ben documentate le lesioni che avete subito.
Altresì fondamentale è l’identificazione di ogni possibile testimone.
Il Fondo, infatti, esige una documentazione molto stringente per dar luogo alle procedure di risarcimento e la vostra dichiarazione non sarà sufficiente: occorrerà documentare tutto in modo appropriato e completo.

Altra cosa essenziale da fare è informare immediatamente, e non oltre tre giorni, la CONSAP e la compagnia designata per il territorio in cui è avvenuto il sinistro dell’avvenimento in modo che sia aperta una posizione e nominato un liquidatore con cui interfacciarvi.

Ma non basta: il Fondo esige che vi sia stato un tentativo di identificazione del veicolo pirata. Ciò non significa, naturalmente, che dobbiate mettervi a svolgere delle indagini. Sarà sufficiente la querela alla competente autorità, che provvederà poi a svolgere tutte le indagini necessarie.
La querela può essere presentata personalmente o tramite un avvocato, alla Procura della Repubblica o a un ufficiale di polizia giudiziaria presso un commissariato di polizia, un comando stazione dei carabinieri e perfino al comando di polizia municipale.
Se optate per presentarla personalmente, potete anche farlo oralmente all’ufficiale di polizia giudiziaria, che provvederà a redigere un verbale e consegnarvene una copia.
Comunque la querela dimostrerà la vostra diligenza ma non l’esistenza del sinistro, che andrà provata tramite testimoni o almeno con i verbali di intervento delle forze dell’ordine, che potrete richiedere all’ufficio incidenti del comando intervenuto (previa autorizzazione del Pubblico Ministero se vi fosse un’informativa di reato).

Presentata la querela e raccolta tutta la documentazione, medica e legale, potrete inoltrare al Fondo, tramite la compagnia designata per la Regione in cui si è verificato il sinistro, la domanda di risarcimento. Il Fondo provvederà a verificare che abbiate diritto e a quantificare il risarcimento mediante i necessari accertamenti medici legali.
Ricevuta la richiesta di risarcimento, il Fondo dovrà farvi un’offerta di risarcimento entro tempi ben definiti. Qualora il Fondo non presentasse alcuna offerta (ad esempio perché non ritenesse esistente il sinistro) o riteneste di non accettarla, non vi resterà che agire giudizialmente per la tutela dei vostri diritti.

Tutte le pratiche necessarie possono essere svolte personalmente, tenendo presente che se decidete di rivolgervi ad un legale, le sue competenze saranno onorate dal Fondo stesso.

L’elenco delle compagnie incaricate per territorio è disponibile a questo link.

Se il datore di lavoro non paga lo stipendio: che fare?

Se il datore di lavoro non paga lo stipendio: che fare?

Può capitare, soprattutto in periodi di crisi economica, che il datore di lavoro non paghi uno o più stipendi.
Che fare in questi casi?

Il sentimento del lavoratore è sempre duplice: da un lato vi è la volontà di recuperare quanto dovuto, dall’altro vi è il timore di creare una frattura nei rapporti con il datore di lavoro e di entrare in un lungo contenzioso, senza poi sapere se e quando la pretesa sarà pienamente soddisfatta.

L’ordinamento, tuttavia, mette a disposizione del lavoratore degli strumenti semplici e, talvolta, molto veloci, per affrontare queste situazioni.

Distinguiamo subito due possibilità: può accadere che il datore di lavoro non paghi lo stipendio, ma consegni il cedolino paga, oppure che non dia entrambi. Anche la mancata consegna del cedolino è una violazione dei doveri del datore di lavoro (punibile con una sanzione amministrativa da 150 a 900 euro) dal momento che il diritto del lavoratore a riceverlo è stabilito dall’art. 1 L. 4 del 05.01.1953.

Nel caso in cui il datore di lavoro abbia consegnato al lavoratore il cedolino, tutto è più semplice. Il cedolino costituisce infatti scrittura contabile aziendale e dunque fa piena prova contro l’imprenditore con la conseguenza che il lavoratore potrà richiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo (ossia un ordine del Giudice di pagare la somma dovuta, oltre agli interessi e alle spese legali) al Tribunale del luogo in cui presta la propria attività.

A questo punto costui può scegliere se pagare entro 40 giorni o fare opposizione; se decide di opporsi si instaurerà una causa di lavoro in cui il datore di lavoro dovrà dimostrare, per essere liberato, di aver effettivamente corrisposto le retribuzioni reclamate.
Comunque, alla prima udienza il Giudice potrà decidere di rendere provvisoriamente esecutivo il decreto ingiuntivo, abilitando il lavoratore all’esecuzione forzata, ovvero al pignoramento di beni o di crediti dell’impresa, per vedere soddisfatte le proprie pretese.

Se entro i 40 giorni il datore di lavoro non paga e non fa opposizione, il decreto ingiuntivo diviene esecutivo, e il lavoratore può procedere all’esecuzione forzata.
Se invece il datore di lavoro non consegna il cedolino, il lavoratore dovrà instaurare una causa di lavoro dimostrando non solo l’esistenza del rapporto, ma anche l’ammontare dovuto, mancando una scrittura proveniente dall’impresa con efficacia probatoria.

Vi è però una strada più semplice, meno costosa e più veloce: la diffida accertativa. Prevista per la prima volta dal D. Lgs. 124 del 23.04.2004, la diffida è un atto non giurisdizionale, ma dell’ispettore del lavoro, che consente di arrivare rapidamente alla formazione del titolo esecutivo (e quindi all’esecuzione forzata).
Nel corso di una ispezione, anche eventualmente su sollecito del lavoratore, dunque, l’ispettore può compiere un accertamento di tipo tecnico, ossia accertare che il lavoratore è creditore di una determinata somma di denaro certa, liquida ed esigibile.

Il Ministero del Lavoro ha chiarito che sono accertabili tecnicamente, e quindi diffidabili, fra gli altri, i crediti retributivi da omesso pagamento, fino ad estendersi anche alle ipotesi di dequalificazione o lavoro sommerso.

Accertata la debenza, l’ispettore del lavoro compila la diffida e la notifica al datore di lavoro. Questi, entro 30 giorni può promuovere la conciliazione alla direzione territoriale del lavoro o il ricorso al comitato regionale per i crediti patrimoniali.

Se omette entrambe le cose, e non paga, scaduti i 30 giorni il direttore della Direzione Territoriale del Lavoro può attribuire alla diffida valore di titolo esecutivo, abilitando così il lavoratore all’esecuzione forzata.

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