Autore: Marco Biagioli

L’imprenditore occulto risponde dei debiti nei confronti del lavoratore

L’imprenditore occulto risponde dei debiti nei confronti del lavoratore

Non è raro che il datore di lavoro, che sia costituito come persona fisica o in forma societaria, sia un vuoto prestanome che il lavoratore – pur formalmente impiegato da un soggetto – presti la propria attività in favore di un altro, che apparentemente non ha legami con il primo.

Si tratta di fenomeni fraudolenti che molto spesso mascherano episodi di sfruttamento e violazione delle norme che presiedono ai rapporti di lavoro, contro cui il lavoratore spesso non può difendersi.

La giurisprudenza ha da tempo stabilito la rilevanza giuridica dell’imprenditore cd. occulto, basandosi su un’interpretazione letterale dell’art. 2092 c.c. che esordisce con “è imprenditore” colui che esercita professionalmente un’attività economica, e dunque valorizzando un profilo di fatto dell’esercizio dell’attività, più che un profilo di diritto dell’iscrizione al registro delle imprese o altro.

il Tribunale di Venezia ha allargato tale rilevanza del fenomeno dell’imprenditore occulto anche ai rapporti di lavoro.

In una recente sentenza, infatti, il giudice lagunare ha statuito che “l’ esercizio da parte dello stesso del potere di iniziativa e delle scelte di gestione nell’ attività di impresa facente formalmente capo alla (omissis)” di fatto rende l’imprenditore occulto “il centro gravitazionale delle scelte effettuate dall’ impresa sia in sede di avvio dell’attività, che nella successiva gestione ed infine quanto alla scelta di dar vita alla S.R.L.”, seguendo l’insegnamento della Suorema Corte (cfr. per tutte Cass. 27541/2019).

Ne deriva, dunque, secondo il Tribunale di Venezia, una riconducibilità del potere direttivo, e dunque della responsabilità per i crediti derivati dall’attività imprenditoriale, anche all’imprenditore occulto oltre che a quello apparente.

Legittima l’eccezione di inadempimento nel contratto di locazione commerciale

Legittima l’eccezione di inadempimento nel contratto di locazione commerciale

Il Tribunale di Venezia, con una interessante sentenza, torna a delineare i contorni della legittimità dell’eccezione di inadempimento nei contratti di locazione commerciale.

Sul punto, l’elaborazione della Cassazione aveva da tempo condotto alla conclusione per cui l’eccezione di inadempimento del conduttore, ossia il rifiuto di pagare i canoni di locazione, fosse legittima, e dunque inibisse la risoluzione per inadempimento, solo in presenza di un inadempimento cd. “totalitario” da parte del locatore, ossia della manifesta impossibilità di godere il bene da parte del conduttore.

La vicenda da cui trae ogirine la sentenza riguarda la locazione di un bene immobile ad uso commerciale destinato alla rivendita di vini, per il quale il locatore aveva chiesto lo sfratto per morosità del conduttore.

nel costituirsi in giudizio, l’intimato esponeva che, a seguito di lavori di natura straordinaria iniziati nei locali oggetto di locazione su commissione di parte locatrice, ma i completati, era stato costretto a chiudere l’attività di rivendita di vini a causa della sopravvenutà completa inutilizzabilità del locale, lasciato giacere quale incompiuto cantiere a causa della fuga dell’esecutore incaricato dalla proprietà.

Muovendo dall’esegesi degli art. 1571,1575 e 1576 c.c. secondo cui la locazione è il contratto con cui una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile od immobile, per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo, il Tribunale ricostruisce le obbligazioni del locatore, tra cui quella di consegnare la cosa in buono stato di manutenzione, di mantenerla in istato da servire
all’uso convenuto e di garantirne il pacifico godimento durante il rapporto.

Il Tribunale riconosce che il generale principio di cui all’art. 1460 c.c., in tema di locazione, ha delle indiscutibili peculiarità, laddove si consideri che il rapporto locatizio è caratterizzato dal godimento dell’immobile, integrante la prestazione del locatore, cui fa da controprestazione il pagamaneto del canone, ma che tra le due prestazioni pur sempre sussiste un rapporto di sinallagmaticità che va declinato anche alla luce dei principi di correttezza e buona fede, di guisa che essa non possa produrre una alterazione del sinallagma contrattuale, determinando uno squilibrio delle rispettive posizioni delle parti del rapporto locatizio.

Ciò che va, dunque, stabilito in concreto, è se l’eccezione di inadempimento sia stata sollevata in buona fede oppure no, e che il Giudice del merito deve verificare “se la condotta della parte inadempiente, avuto riguardo all’incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto, abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico dello stesso, in rapporto all’interesse perseguito dalla parte, e perciò abbia legittimato, causalmente e proporzionalmente, la sospensione dell’adempimento dell’altra parte” (Cass. 2720/2009, conf. Cass. 16822/2003).

Sempre la giurisprudenza di legittimità ha ricordato che tale sospensione è stata ritenuta legittima solo “qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo altrimenti un’alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti. Inoltre, secondo il principio inadimplenti non est adimplendum, la sospensione della controprestazione è legittima solo se conforme a lealtà e buona fede” (Cass. 20322/2019).

Sulla base dei principi delineati, e alla luce della consulenza tecnica d’ufficio svolta nell’istruttoria, il Tribunale ha concluso che la mancata conclusione dei lavori di straordinaria manutenzione commissionati abbia reso il locale inidoneo allo svolgimento dell’attività commerciale del conduttore e che, ciò si sia posto in contraddizione con l’obbligo specifico di garantire il godimento degli immobili locati, rendendo così legittima la sospensione del pagamento dei canoni, essendo emersa l’inidoneità del locale allo svolgimento dell’attività commerciale, che in effetti da luglio 2019 si era interrotta senza più riprendere.

Nel caso di specie, infatto, era venuta completamente a mancare la completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore.

Il Giudice pertanto, in accoglimento dell’opposizione, dichiarava risoluto il contratto per inadempimento del locatore, non convalidando lo sfratto intimato per morosità.

La pronuncia, dunque, conferma la bontà del percorso scelto dal difensore quando, ancora in fase stragiudiziale, aveva avviato la mediazione annunciando che, in caso di mancato adeguamento dei locali, il conduttore avrebbe sospeso il pagamento dei canoni.

La pronuncia, ponendosi in piena coerenza con la giurisprudenza di merito e di legittimità ormai consolidata, conferma la possibilità del conduttore di reagire alla trascuratezza del locatore senza incorrere nello sfratto.

Art. 15 T.U. IVA applicabile anche ai forfettari

Art. 15 T.U. IVA applicabile anche ai forfettari

Il regime IVA forfettario, introdotto dall’art. 1, co. 54-89, L. 190/2014 (cd. Legge di stabilità 2015) rappresenta il regime naturale delle persone fisiche che esercitano un’attività di impresa, arte o professione in forma individuale, che rispettino i limiti patrimoniali richiesti e purché siano in possesso degli altri requisiti stabiliti dal co. 54 e ss. citati, come da ultimo modificati, a decorrere dal 1.1.2020, dalla L. 160/2019 (Legge di Bilancio 2020).

Naturale perché contiene alcune disposizione di grande favore sia in ordine all’aliquota di imposizione, sia alla non assoggettabilità ad imposta sul valore aggiunto dei compensi percepiti, che in ordine alla estrema semplificazione del regime stesso, che esclude la tenuta di qualsiasi libro o registro ad eccezione della conservazione e numerazione delle fatture di acquisto e di vendita, nonché l’esonero dagli studi di settore, redditometro e spesometro.

Il requisito patrimoniale principale dell’attuale regime è il non aver conseguito, tra l’altro, nell’anno precedente, ricavi superiori ad euro 65.000,00.

Ma come vanno conteggiati ed intesi tali euro 65.000,00 di fatturato massimo ai fini del regime fiscale in oggetto? La domanda è, in verità, piuttosto importante poiché il superamento della soglia comporta, per il contribuente, la fuoriuscita dal regime agevolato e il transito nel regime ordinario, con tutte le conseguenze del caso.

Da articoli a stampa, anche specializzata e anche abbastanza autorevoli, che periodicamente compaiono sul punto, si legge una discreta confusione su un punto di grande importanza, ossia l’applicabilità, ai contribuenti in regime forfettario, dell’art. 15, co. 1, n. 3 D.P.R. 633/1972 (cd. Testo Unico IVA) che, come noto, prevede che “non concorrono a formare la base imponibile:

(…)

3) le somme dovute a titolo di rimborso delle anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, purché regolarmente documentate”, e dunque l’esclusione dal calcolo dell’imponibile del riaddebito di somme che il contribuente anticipa in nome e per conto del cliente e pacificamente a lui riferibili.

Tutti i professionisti sostengono, per conto del cliente, spese per lo svolgimento dell’incarico, che poi riaddebitano allo stesso quali “spese esenti” o “anticipazioni non imponibili”. Non parliamo di spese di produzione di reddito, ma di spese cd. vive, come bolli, postali, tasse su singoli adempimenti e altre voci di spesa che il contribuente non sostiene per lo svolgimento della propria attività, ma in sostituzione del cliente per l’adempimento del singolo mandato da questi ricevuto, e che il cliente potrebbe, avendone le competenze, sostenere in proprio consegnando al professionista la prova del pagamento.

Nel regime IVA ordinario, tali spese sono espressamente escluse dal computo dell’imponibile in forza del citato art. 15, co. 1, n. 3 D.P.R. 633/1972; tuttavia è sorto un contrasto ancora non risolto sull’applicabilità di tale esclusione al contribuente in regime forfettario.

Da un lato, infatti, si sostiene che tale esclusione sia applicabile anche ai forfettari sia in ragione di un criterio di logica (non avrebbe senso considerare “componente positivo di reddito” il rimborso di una spesa anticipata che non produce alcun arricchimento per il contribuente), sia in ragione della lettura coordinata delle norme.

Le disposizioni rilevanti, infatti, ossia l’art. 1, co. 54-89, L. 190/2014 prevedono quanto segue:

“58. Ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, i contribuenti di cui al comma 54: (…) d) applicano alle prestazioni di servizi ricevute da soggetti non residenti o rese ai medesimi gli articoli 7-ter e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni;

64. I soggetti di cui al comma 54 determinano il reddito imponibile applicando all’ammontare dei ricavi o dei compensi percepiti il coefficiente di redditività nella misura indicata nell’allegato n. 4 (…). I contributi previdenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge, compresi quelli corrisposti per conto dei collaboratori dell’impresa familiare fiscalmente a carico, ai sensi dell’articolo 12 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, e successive modificazioni, ovvero, se non fiscalmente a carico, qualora il titolare non abbia esercitato il diritto di rivalsa sui collaboratori stessi, si deducono dal reddito determinato ai sensi del presente comma (…)”.

Da quanto ridetto si deduce che i contribuenti in regime forfettario:

Calcolano il reddito imponibile applicando il coefficiente di redditività all’ammontare dei compensi (ricavi per le imprese);

Applicano l’art. 7 ter e ss. D.P.R. 633/1972, e quindi, apparentemente, anche l’art. 15, co. 1, n. 3 sulle anticipazioni.

Dall’altro lato, invece, si sostiene che proprio le norme citate, prevedendo che la determinazione dell’imponibile avvenga mediante applicazione del coefficiente di redditività e che sia permessa la sola deduzione dei contributi previdenziali, impediscano l’applicazione dell’art. 15 poiché questo prevede delle deduzioni diverse da quelle esplicitamente considerate dalle disposizioni e, infine, perché comunque tali erogazioni costituiscono, per il professionista, dei “ricavi”.

A opinione di chi scrive il contrasto va risolto in senso affermativo alla applicabilità dell’art. 15 anche al regime forfettario, trattandosi di norma non esplicitamente esclusa dalle disposizioni e rientrante nelle previsioni del co. 58, ed essendo le anticipazioni di che trattasi assolutamente non qualificabili come compensi trattandosi di somme anticipate per conto del cliente e a lui pacificamente riferibili che non possono, da un punto di vista logico, costituire imponibile fiscale (e previdenziale) in ragione di quanto detto e pertanto si ritiene che sia possibile escludere dal computo dei componenti positivi di reddito ex art. 15, co. 1, n. 3, D.P.R. 633/1972 le spese documentate anticipate in nome e per conto del cliente, che sono poi recuperati mediante addebito in fattura sotto la voce “spese esenti” o “anticipazioni non imponibili”, e che pacificamente non costituiscono “compensi”, mentre la voce “ricavi” ha poco senso nel contesto di cui si parla poiché essi attengono non all’attività professionale o di lavoro autonomo ma al reddito d’impresa.

Interrogata sul punto con l’interpello 907-107/2020 ex art. 11, co. 1, lett. a), L. 212/2000, è finalmente intervenuta a dare chiarezza l’Agenzia delle Entrate la quale ha specificato che, con riferimento ai redditi di lavoro autonomo, l’amministrazione finanziaria, con circolare 58/E del 18.6.2001, al paragrafo 2.2, aveva in allora precisato che tra i compensi del professionista rientrano i proventi percepiti sotto forma di rimborsi dispese inerenti all’attività, con esclusione dei rimborsi relativi a spese, analiticamente dettagliate, anticipate in nome e per conto del cliente. Tale situazione impone che i rimborsi, salvo quelli anticipati in nome e per conto del cliente, siano trattati alla stregua degli altri compensi”.

Ancora, con la Risoluzione 163/E del 22.10.2001, è stato ulteriormente chiarito che “i compensi che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo sono costituiti dalle erogazioni che i clienti corrispondono ai professionisti ed artisti nel periodo d’imposta considerato. Nella nozione di compenso vanno inclusi anche i proventi percepiti sotto forma di rimborsi di spese inerenti all’attività, con esclusione di quelli relativi a spese analiticamente dettagliate, anticipate in nome e per conto del cliente.

Peraltro anche le risoluzioni 59 del 17.4.1996 e 164/E del 31.7.2003, pur se rese in ambito IVA, avevano precisato che il presupposto essenziale affinché un determinato importo, riaddebitato al committente, possa essere escluso dalla base imponibile IVA è costituito dalla diretta insorgenza nella sfera patrimoniale del committente dell’onere di cui trattasi: in presenza di tale presupposto, infatti, può ravvisarsi un pagamento effettuato in nome e per conto di terzi e, conseguentemente, può escludersi la natura di corrispettivo dell’importo riaddebitato al committente, in quanto debito sorto direttamente nella sfera patrimoniale di quest’ultimo.

Tale risposta chiarisce definitivamente che, anche per i contribuenti in regime forfettario, opera pienamente l’art. 15, co. 1, n. 3 D.P.R. 633/1972 e dunque le anticipazioni effettuate in nome e per conto del cliente, purché debitamente documentate, non rappresentano un componente positivo di reddito per il professionista. In un prossimo articolo verrà esaminato come tali voci debbano essere trattate ai fini della compilazione della certificazione unica.

Legge Gelli-Bianco applicabile anche in assenza dei decreti attuativi

Legge Gelli-Bianco applicabile anche in assenza dei decreti attuativi

Risultato immagini per responsabilità sanitaria

Il Tribunale di Venezia ribadisce l’applicabilità degli strumenti processuali previsti dalla L. Gelli-Bianco anche in assenza di decreti attuativi che, ricordiamo, a quasi tre anni di distanza dalla promulgazione della Legge, non sono ancora stati emanati.

La Legge 24/2017, cd. Gelli-Bianco recante “disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” aveva profondamente innovato il settore della responsabilità medica e sanitaria finalmente codificando le conclusioni a cui era da tempo giusta la giurisprudenza di merito e di legittimità sull’assetto delle azioni nei confronti delle strutture sanitarie e della responsabilità di queste ultime.

Muovendo dall’elaborazione pretoria del cd. “contratto atipico di spedalità”, la Legge aveva riconosciuto la responsabilità ex art. 1218 e 1228 c.c. (di natura contrattuale) in capo alla struttura, ed ex art. 2043 c.c. (aquiliana) in capo al sanitario direttamente responsabile lasciando al danneggiato la scelta se agire contro l’uno e contro l’altro.

Peraltro, la Legge, all’art. 8, ha prefigurato uno speciale percorso processuale per tale tipo di azione, che prevede la facoltà per l’attore di scegliere tra la preventiva mediazione e il ricorso per consulenza tecnica ai fini della composizione della lite, ex art. 696 bis c.p.c., già prima della sua promulgazione strumento molto usato nella pratica giudiziaria, ed ora codificato come primo passo, seguito poi dal ricorso ex art. 702 bis ove la conciliazione non riesca.

La legge, peraltro, nello spingere al massimo la finalità conciliativa, aveva previsto che fin dall’inizio l’assicuratore dell’azienda sanitaria (che deve per Legge essere pubblicamente indicato assieme agli estremi di polizza nel sito internet dell’azienda sanitaria stessa) fosse parte dell’accertamento tecnico in modo da poter fin dall’inizio formulare eventuali proposte transattive da un lato, e dall’altro, l’accertamento gli fosse opponibile in caso di mancata conciliazione.

Per di più, la legge qualifica la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva “obbligatorio” per tutte le parti, riservando un trattamento particolarmente severo alla parte che, convenuta in giudizio, non partecipi: “in caso di mancata partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione”.

Il quadro normativo in esame, dunque, spinge fortemente per una conciliazione nella prima fase facilitandola al massimo mediante la previsione della partecipazione della compagnia di assicurazioni fin dall’inizio ed evitando inutili rinvii legati a chiamate in causa di terzi, autorizzando il ricorrente alla citazione diretta.

Fin dall’inizio si erano posti due problemi interpretativi di notevole portata: che sorte avrebbero avuto le azioni iniziate dopo l’entrata in vigore della Legge, ma riferite a fatti precedenti la stessa?

E ancora, cosa avrebbero dovuto fare i danneggiati in attesa che fossero emanati i decreti attuativi che il legislatore non ha ancora voluto emanare dopo quasi tre anni dall’entrata in vigore della Legge?

Quanto alla prima domanda, è stato ritenuto in dottrina e in giurisprudenza che, pur essendo pacifico che al fatto genetico della responsabilità risalente a prima delle Legge Gelli Bianco (L. 24/2017) la disciplina sostanziale applicabile fosse quella precedente, con tutta la sua conseguente elaborazione giurisprudenziale in tema di responsabilità della struttura in forza del cd. contratto atipico di “spedalità”, fossero purtuttavia applicabili le norme di natura processuale prevedute dalla L. 24/2017 proprio perché di natura non sostanziale, ma destinate a regolare il rapporto processuale, con la conseguenza che esse si applicano a tutti i procedimenti promossi successivamente, indipendentemente dal momento del fatto genetico della responsabilità.

Quanto alla seconda, nel costituirsi in giudizio gli assicuratori avevano più volte contestato la carenza di legittimazione legata al fatto che le disposizioni relative all’azione diretta del soggetto danneggiato nei confronti dell’impresa di assicurazione, stando alla norma, “si applicano a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 6 dell’art. 10 con il quale sono determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie”, che, come noto, ad oggi non è stato ancora emanato.

Tuttavia, era stato osservato fin dall’inizio che tale lacuna legislativa, ossia la mancata adozione del decreto attuativo ex art. 1, co. 6, al massimo avrebbe escluso la sussistenza dei presupposti per l’irrogazione della sanzione di cui all’art. 8, ma non faceva venir meno l’obbligatoria partecipazione al procedimento di tutti i soggetti coinvolti.

Su tale linea si erano già espressi numerosi giudici di merito, tra cui Trib. Verona, 17.5.2018 e Trib. Venezia, 16.7.2018.

Proprio il Tribunale di Venezia, con ordinanza del 5.2.2020 (G.I. dott. Simone) ha summarizzato e indicato molto chiaramente le condizioni di applicabilità della L. 24/2017 in mancanza dei decreti attuativi.

La vicenda trae origine da un ricorso ex art. 696 bis c.p.c. e art. 8 L. 24/2017 con cui i ricorrenti, patrocinati dall’Avv. Marco Biagioli, lamentando un errore diagnostico che aveva condotto a terapie inadeguate e conseguente danno alla salute, convenivano in giudizio l’azienda sanitaria e il proprio assicuratore per la preventiva fase della consulenza tecnica.

L’assicuratore si costituiva in giudizio eccependo carenza di legittimazione per la mancata adozione del decreto attuativo ex art. 1, co. 6, che a suo dire avrebbe escluso l’azione diretta, e perché la SIR della polizza aveva un valore di 750.000 euro, lasciando altrimenti la gestione della controversia all’azienda sanitaria.

Il Tribunale, dopo aver udito le repliche dei ricorrenti, rilevava che “pur non essendo stata ancora varato il decreto previsto dall’art. 10, comma 6, l. 24/2017 circa <<i requisiti minimi delle polizze assicurative>>, attesa la chiara finalità del legislatore di individuare un percorso processuale teso a propiziare, ove possibile, la conciliazione della instauranda controversia, non è dirimente l’assenza di azione diretta da parte del soggetto (asseritamente) danneggiato verso la compagnia della struttura” e che dunque “nell’indicata traiettoria, volta a favorire la massima e fattiva partecipazione alla procedura ex art. 696 bis c.p.c., l’art. 8, comma 4, prevede un meccanismo sanzionatorio, che evidenzia il chiaro intento del legislatore di consentire lo svolgimento della consulenza nel pieno contraddittorio di tutti i soggetti potenzialmente interessati anche al fine di rendere opponibile il disposto accertamento, sì da evitare la reiterazione nella fase di merito”.

Quanto alle eccezioni dell’assicuratore, aggiungeva che “non è dirimente quanto osservato dalla compagnia in merito alla portata dell’obbligo di partecipazione al procedimento ex art. 15, comma 4, l. 24/2017, posto che, fermo il menzionato rafforzamento della finalità conciliativa, la mancata adozione del decreto attuativo ex art. 1, comma 6, s.l. al più potrebbe portare ad escludere la sussistenza dei presupposti per l’erogazione della prevista sanzione, ma nondimeno rimane il dato della obbligatoria partecipazione al procedimento di tutti i soggetti indicati dal ricorrente” e che “non è dubitabile che l’impianto della legge 24/2017 sia connotato da una esigenza di accelerazione, che non può essere frustrato dal ritardo nell’emanazione della normativa di attuazione con il rischio di un incremento dei costi processuali in caso di reiterazione dell’accertamento nella fase di merito” (Trib. Venezia, 5.2.2020).

Il Giudice pertanto, in accoglimento del ricorso e respingendo le opposte eccezioni, nominava il consulente tecnico d’ufficio e formulava il quesito.

La pronuncia, dunque, conferma la bontà del percorso scelto dal difensore e le conclusioni della giurisprudenza più accorta che aveva osservato come la finalità acceleratoria e deflattiva del procedimento non potesse essere cancellata a causa dell’inerzia nell’emanazione del decreto attuativo e che la predisposizione di un impianto processuale teso alla conciliazione, favorita sotto molti punti di vista, dovesse essere comunque salvaguardata. Tale pronuncia traccia nuovamente una linea importantissima per chi, già colpito da sciagurati eventi quali l’errore medico e il correlativo danno alla salute, si vedeva opporre dagli assicuratori delle aziende sanitarie eccezioni meramente dilatorie e defatigatorie, rallentando il raggiungimento del risultato ultimo, ossia della risoluzione della lite con la corresponsione del giusto risarcimento.

Associazione in locali commerciali: per il Consiglio di Stato è possibile

Associazione in locali commerciali: per il Consiglio di Stato è possibile

Il Consiglio di Stato prende una importante posizione in tema di uso di immobili con destinazione d’uso commerciale che siano stati adibiti, senza esecuzione di opere, a luoghi di culto o sedi di associazioni religiose.

La vicenda trae origine da una ordinanza del Comune di Venezia del 2018 con cui veniva disposto a carico di una associazione religiosa locale, che si riuniva in un locale precedentemente adibito a negozio e con destinazione d’uso commerciale, e che l’associazione stessa regolarmente conduceva in locazione non residenziale, di “ripristinare” la destinazione d’uso commerciale, asseritamente mutata rispetto all’uso effettivo, di luogo di riunione a fini religiosi.

Stando alla prospettazione del Comune, l’uso a fini religiosi o culturali è incompatibile con la destinazione d’uso commerciale e che, dunque, l’associazione avrebbe dovuto chiedere un conforme titolo edilizio per il mutamento di destinazione d’uso (mutamento che lo stesso Comune avrebbe, peraltro, ritenuto impossibile in ragione delle limitazioni della zona urbanistica).

L’associazione, patrocinata dagli Avvocati Marco Biagioli e Caterina Caregnato ricorreva al TAR Veneto evidenziando l’illegittimità dell’ordinanza sotto molteplici profili, tra cui la non rilevanza della destinazione d’uso in relazione all’uso “religioso”, sulla base della corretta interpretazione dell’art. 23 ter T.U. Edilizia, ossia la norma che direttamente dispone quando sia necessario ottenere un titolo edilizio.

Partendo da una accurata interpretazione di una pronuncia della Corte di Cassazione, secondo cui “per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di cui al D.P.R. 380/2001, e cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non determini l’assegnazione dell’immobile a una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico urbanistico nel senso anzidetto” (Cass. 34812/2017), i ricorrenti sostenevano l’irrilevanza urbanistica del contestato mutamento di destinazione d’uso.

In primo grado il TAR Veneto rigettava il ricorso sostenendo che l’associazione avrebbe dovuto ottenere un titolo abilitativo edilizio per l’esercizio del culto nel negozio de quo.

Avverso tale sentenza l’associazione interponeva appello al Consiglio di Stato chiedendo l’integrale riforma della prima pronuncia e la sospensione medio tempore del provvedimento impugnato.

Con ordinanza cautelare 2788/2019 del 30.5.2019 il Consiglio di Stato accoglieva la richiesta di sospensiva motivando in piena aderenza agli argomenti di parte ricorrente: “considerato che, ad un primo sommario esame proprio della fase cautelare, il contestato mutamento di destinazione d’uso, non appare urbanisticamente rilevante”.

La pronuncia, come si capisce, non riguarda tanto il pericolo che derivi all’associazione dall’esecuzione del provvedimento, ma il merito della vicenda, ossia l’esistenza o meno del diritto.

La motivazione, peraltro, ricalca pienamente quanto sostenuto dall’associazione appellante, ossia che la destinazione a luogo di culto sia in sé astrattamente compatibile con tutte le categorie funzionali di cui all’art. 23 ter D.P.R. 380/2001, a condizione che non siano eseguite opere che richiedano di per sé stesse il conforme titolo abilitativo.

Tale pronuncia è destinata a tracciare una linea importantissima per la vita delle associazioni religiose e culturali che svolgono una parte importante nella società ma che molto spesso sono andate incontro a interventi legislativi o amministrativi ritorsivi e volutamente discriminatori, sovente mascherati sotto la disciplina edilizia urbanistica.

Lavori non eseguiti a regola d’arte, come agire

Lavori non eseguiti a regola d’arte, come agire

Eseguire restauri in casa è spesso un impegno economico oneroso e anche un notevole disagio personale vista la necessità di vivere temporaneamente in un ambiente in parte inagibile.
Ma può anche accadere che i restauri a lungo pianificati e su cui si sono investite cifre importanti non vengano eseguiti in conformità alle previsioni del contratto di appalto o alla regola dell’arte.
Che fare in questi casi?

Il primo e fondamentale consiglio è il seguente: evitare di trovarsi nella situazione descritta e un buon sistema per prevenire il più possibile la possibilità di scoprire difetti e vizi quando sia già tardi è nominare quale direttore dei lavori un professionista, architetto o ingegnere, di propria fiducia (non dell’impresa) che segua passo per passo l’esecuzione delle opere e possa intervenire tempestivamente ove scorga difformità o lavorazioni male eseguite.
Si tratterà di un piccolo investimento in più, ma potrà prevenire futuri contenziosi.

Se però nonostante questo, o anche avendolo nominato, difetti vi siano lo stesso, sarà necessario rivolgersi a un Avvocato competente in contrattualistica e, nello specifico, in contratti di appalto.

Partiamo dal quadro di riferimento: il privato consumatore che incarichi una impresa di eseguire dei lavori in casa conclude un contratto di appalto.
L’appalto, secondo l’art. 1655 del codice civile è il contratto con cui “una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”. In altre parole è il contratto con cui una parte (committente), affida all’altra (appaltatore) l’incarico di compiere un’opera o un servizio e per questo gli paga il corrispettivo: l’esecuzione dell’opera, come l’acquisto dei materiali, la messa a disposizione della manodopera, sono a carico dell’appaltatore, e a suo rischio, nel senso che limitate oscillazioni nei costi che aveva preventivato si scaricheranno su di lui.
Già da questa definizione si capiscono due cose: l’appaltatore deve necessariamente essere un imprenditore (poiché solo l’imprenditore è, giuridicamente, colui che organizza i mezzi necessari allo svolgimento dell’attività economica con assunzione di rischio – cfr. art. 2082 c.c.) e su di lui grava una obbligazione di risultato (poiché sopporta il rischio), in quanto è tenuto non solo a predisporre i mezzi necessari per realizzare l’opera ma anche a raggiungere quel risultato, e proprio quello, previsto dal contratto, risultato che deve essere raggiunto in applicazione del criterio della diligenza professionale.
Da un lato, quindi, è chiaro il potere dell’appaltatore di gestire autonomamente le fasi preparatorie ed esecutive, ma dall’altro, il pieno adempimento coincide solo con la completa realizzazione dell’opera, la quale non deve presentare vizi o difformità rispetto al progetto concordato dagli stipulanti e, salvo casi fortuiti o forze maggiori, deve essere consegnata nel rispetto dei tempi previsti.
D’altro canto l’unico obbligo del committente è di pagare gli acconti, ove previsti, nei tempi concordati e rendere possibile, o comunque non ostacolare, la realizzazione dell’opera da parte dell’appaltatore.

La controversia dunque nasce qualora l’appaltatore non rispetti questi canoni e, quindi, non sia stata rispettata la regola dell’arte o l’opera eseguita sia difforme da quella progettata e convenuta.

In questo caso il committente ha due strade: l’una è la risoluzione per inadempimento da un lato, e l’azione prevista dagli art. 1667-1668 dall’altro.

Per quanto concerne la prima, ossia la risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c., le condizioni per ottenerla sono state ben descritte dalla Suprema Corte ha già avuto modo di rilevare che l’esecuzione di “opere affette da gravi difetti” e altresì l’abbandono del cantiere costituiscono le condizioni di base perché sia pronunciata la risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore (cfr. Cass. 27298/2013) e la conseguente condanna al risarcimento del danno.
Quanto alle conseguenze di tale risoluzione, esse si muovono in duplice direzione: restitutoria e risarcitoria.
Quanto alla parte restitutoria, la risoluzione comporterà la restituzione al committente di tutti gli importi corrisposti all’appaltatore a titolo di acconto, salva la parte di lavori eseguiti e utilmente utilizzabile.
Quanto alla parte risarcitoria, l’appaltatore dovrà corrispondere al committente un risarcimento per i danni patiti a causa della sua negligenza, danno che in linea di massima coincide con il costo degli interventi di demolizione di opere difettose e con la differenza di preventivo tra quello che l’appaltatore stesso avrebbe preteso, e quello che sarà preteso da chi realizzerà effettivamente l’opera.

L’altra possibilità è l’azione che fa leva sulla garanzia che deve fornire l’appaltatore ex art. 1667 c.c.: “l’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera. La garanzia non è dovuta se il committente ha accettato l’opera e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purché in questo caso, non siano stati in malafede taciuti dall’appaltatore.
Il committente deve, a pena di decadenza, denunziare all’appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta. La denunzia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati.
L’azione contro l’appaltatore si prescrive in due anni dal giorno della consegna dell’opera. Il committente convenuto per il pagamento può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunciati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna”, garanzia secondo la quale “il committente può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore” (art. 1668 c.c.).
Tale seconda azione, come si vede, tenta di “salvare” l’opera spingendo l’appaltatore a renderla conforme, ma è anche soggetta a vari vincoli: la decadenza dalla denuncia e la prescrizione dell’azione, che possono renderla poco appetibile specialmente se, come spesso accade, la fiducia nell’appaltatore sia venuta meno.
Peraltro tale zione non è sempre attivabile, l’art. 1668, co. 2, c.c., specifica, infatti, che “se però le difformità o i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto”, il che riporta alla soluzione sopra indicata.
Tale seconda azione, comunque, appare più percorribile ove si tratti di piccole difformità, la cui sistemazione non richieda interventi radicali o modifiche particolarmente invasive, non essendovi nessuna garanzia che quello che è stato fatto male la prima volta, venga poi fatto bene la seconda.

Peraltro, anche nel caso della risoluzione, ciò che di buono è stato fatto rimarrà comunque in situ, dovendo procedere alla demolizione solo di ciò che non sia in nessun modo salvabile.

Sia che si opti per una, sia che si opti per l’altra, decisione che deve essere ponderata seguendo le indicazioni di un Avvocato esperto in materia, anche considerando i costi e i benefici, e la sussistenza delle condizioni di legge per agire, il primo passo è contattare un professionista, architetto o ingegnere, che rediga una prima relazione sullo stato dei luoghi e di esecuzione delle opere, confrontando quanto è previsto dal contratto di appalto e dal capitolato di oneri con ciò che è stato realizzato, onde “fotografare” la situazione e fornire al giudice un quadro completo.

Qualora poi valga la pena di tentare una soluzione conciliativa, si può presentare al Tribunale, in luogo della causa ordinaria, un ricorso per ottenere una consulenza tecnica d’ufficio, ossia una perizia fatta da un tecnico indipendente nominato dal Tribunale, che provveda anche a formulare una proposta conciliativa liberamente valutabile dalle parti; ove la conciliazione abbia successo, si potrà evitare il giudizio, ove invece non abbia successo, nel futuro giudizio le parti potranno giovarsi di un elaborato peritale fatto sotto la supervisione del Tribunale e avente valore di prova.

Tale strada, sebbene in forma leggermente diversa, può anche essere percorsa laddove, per il tipo di lavori o di fabbricato in argomento, sia necessario “fotografare” la situazione subito perché sono richieste delle modifiche urgenti allo stato dei luoghi (ad esempio per svolgere lavori improcrastinabili di messa in sicurezza).

Tali circostanze devono comunque essere valutate congiuntamente dall’Avvocato e dall’architetto o ingegnere, onde individuare la soluzione più adeguata al caso concreto.

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