Autore: marco

E se l’inquilino non paga il canone?

E se l’inquilino non paga il canone?

Concedere in locazione un immobile è il modo più semplice per metterlo a reddito, ma in alcuni casi può trasformarsi in un bel grattacapo se l’inquilino dovesse smettere improvvisamente di pagare il canone di locazione.

Che si deve fare in questi casi?
Il primo passo, naturalmente, sarà quello di inviargli una raccomandata A/R, preferibilmente predisposta da un Avvocato, per sollecitarlo a onorare le proprie obbligazioni.
Tuttavia, può ben accadere che, nonostante i solleciti, l’inquilino continui a non pagare, e allora l’unica soluzione è ottenere nel più breve tempo possibile il rilascio dell’immobile e un titolo esecutivo per avviare l’esecuzione forzata per il recupero del dovuto.

In questi casi l’ordinamento mette a disposizione un rimedio di giustizia piuttosto rapido ed efficiente: il procedimento per convalida di sfratto.
Tale procedimento, quando si riferisce allo sfratto per morosità (ossia allo sfratto legato al mancato pagamento del canone), è attivabile a condizione che l’inquilino si sia reso moroso del pagamento di almeno un rateo del canone di locazione.
Il procedimento inizia con un atto di intimazione di sfratto per morosità notificato all’inquilino con contestuale citazione all’udienza di convalida che dovrà essere fissata almeno venti giorni dopo la notifica dell’atto.

All’udienza di convalida possono accadere tre cose:
L’inquilino non compare: in questo caso il giudice convalida lo sfratto e fissa il termine entro cui l’inquilino dovrà lasciare libero l’immobile;
L’inquilino compare, ma non si oppone allo sfratto: anche in questo caso il giudice convalida lo sfratto e fissa il termine entro cui l’inquilino dovrà lasciare libero l’immobile;
L’inquilino compare e si oppone, contestando o meno la morosità: in questo ultimo caso il giudice metterà la causa in istruttoria e avrà inizio un vero e proprio processo civile, nelle forme del cd. rito locatizio (una forma processuale un po’ più semplice del processo civile ordinario), dopo aver tentato la mediazione civile tra le parti, avanti a un mediatore terzo. Il giudice, comunque, a seconda che l’opposizione appaia “seria” in quanto fondata su una prova scritta, o meno, potrà ugualmente convalidare lo sfratto “con riserva”.

In tutti i casi, la convalida non può aver luogo se il locatore non dichiara la persistenza della morosità o se l’inquilino la sani all’udienza.
Nel solo caso di immobili ad uso abitativo, peraltro, la L. 392/1978 (cd. sull’equo canone) consente al conduttore di chiedere al giudice un termine, non superiore a novanta giorni, entro cui sanare la morosità e pagare tutte le spese del giudizio, impedendo così la convalida. Se l’inquilino chiede la concessione di tale termine e il giudice ritiene vi sia possibilità che la sanatoria avvenga, verrà fissata una nuova udienza entro la quale l’inquilino dovrà aver sanato la morosità e le spese di giudizio, oltre ad aver pagato i canoni scaduti nel frattempo.
A questa nuova udienza, se l’inquilino avrà regolarizzato la propria posizione, il procedimento si estinguerà, altrimenti il giudice pronuncerà l’ordinanza di convalida, ossia il provvedimento con cui rende concretamente attivabile lo sfratto, imponendo all’inquilino di rilasciare l’immobile entro una certa data.

In questa fase il locatore, se non lo abbia già fatto prima, contestualmente all’intimazione di sfratto, potrà chiedere al giudice di pronunciare anche un decreto ingiuntivo per tutti i canoni non pagati e quelli che scadranno fino al rilascio, oltre alle spese di giustizia e agli interessi.

Il conduttore avrà a quel punto a sua disposizione due titoli esecutivi, uno per il pagamento delle somme (il decreto ingiuntivo) e uno per il rilascio dell’immobile (l’ordinanza di convalida), entrambi immediatamente esecutivi e che potrà notificare all’inquilino insieme al precetto, ossia all’intimazione a pagare e a rilasciare l’immobile ancora detenuto.

Qualora l’inquilino non ottemperi, sarà necessario procedere all’esecuzione forzata vera e propria, ossia allo sloggio dell’inquilino e al pignoramento dei suoi beni, cosa di cui si occupa l’ufficiale giudiziario.

A seconda dei Tribunali, tutto il procedimento giudiziale, e salve eventuali opposizioni, dovrebbe restare contenuto entro un termine relativamente breve, comunque non superiore all’anno.
Diverso il caso dell’eventuale esecuzione forzata, che potrebbe richiedere tempi un po’ più lunghi a seconda dell’organizzazione e del carico di lavoro degli Ufficiali Giudiziari competenti per zona.

Per tutta la procedura è comunque necessario rivolgersi a un Avvocato competente in tema di locazioni che, a seconda delle circostanze, saprà dare le indicazioni e i consigli più opportuni su come procedere.

Un’ultima importante nota: il contratto di locazione deve, a pena di nullità, essere registrato.
Qualora non abbiate registrato il contratto di locazione, tutto il procedimento che precede è esposto al rischio di una opposizione per nullità del contratto di locazione originario. Sul punto la giurisprudenza si è divisa nella possibilità di proseguire nella strada indicata, per cui l’Avvocato dovrà attentamente valutare le circostanze e valutare se non sia opportuno procedere in forma diversa.

Guida in stato di ebbrezza: come difendersi?

Guida in stato di ebbrezza: come difendersi?

Una doverosa premessa: chi guida non dovrebbe consumare alcolici prima di mettersi al volante e il presente articolo non vuole in alcun modo incoraggiare tale comportamento.

Tuttavia può accadere che, per i motivi più vari, un guidatore sottoposto alla prova dell’etilometro risulti aver superato la soglia di alcol nel sangue prevista dalla Legge per essere idonei alla guida.
Le norme che impongono il divieto di guidare in stato di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di alcol sono l’articolo 186 e 186-bis del Codice della Strada. Dispone il primo: “è vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche”.
La norma stabilisce poi tre soglie di punibilità: se il tasso alcolemico è superiore a 0,5 ma non superiore a 0,8 grammi per litro, l’automobilista è sanzionato con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da € 532 a € 2.127 e con la sospensione della patente di guida da tre a sei mesi.
Sopra gli 0,8 g/l sono previste delle sanzioni penali e la guida in stato di ebbrezza costituisce reato.
Se, infatti, il tasso alcolemico è superiore a 0,8 ma non superiore a 1,5 grammi per litro la sanzione è l’ammenda da euro 800 a euro 3.200 e l’arresto fino a sei mesi, oltre alla sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno. Se, infine, il tasso alcolemico è superiore a 1,5 grammi per litro (g/l) la sanzione è l’ammenda da euro 1.500 a euro 6.000 e l’arresto da sei mesi ad un anno, oltre alla sospensione della patente di guida da uno a due anni.
Il trattamento sanzionatorio è ulteriormente inasprito per chi ripete tali comportamenti nel tempo: in caso di recidiva entro i due anni è prevista la revoca della patente di guida.
Peraltro, nel pronunciare la condanna, il giudice, anche in caso di sospensione condizionale, dispone la confisca del veicolo o, qualora il veicolo non fosse del trasgressore, con disposizione di dubbia costituzionalità, il raddoppio della sospensione della patente.
Addirittura, se il conducente in stato di ebbrezza provoca un sinistro, tutte le sanzioni sono raddoppiate ed è previsto il fermo amministrativo del veicolo per centottanta giorni, salvo che appartenga a persona estranea all’illecito.
L’art. 186, co. 2-sexies, e 186-bis, prevedono ulteriori aggravanti se l’infrazione è commessa di notte, da parte di neo patentati, guidatori infraventunenni o conducenti professionisti.
Peraltro tutte le sanzioni accessorie si applicano, per espressa disposizione, anche in caso di richiesta di applicazione della pena (cd. patteggiamento) e le attenuanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti alle aggravanti.

La norma, tuttavia, offre la possibilità di difendersi da tale severissimo trattamento sanzionatorio e prevede una possibilità per il trasgressore, ossia il lavoro di pubblica utilità.
Se, infatti, non è stato cagionato un sinistro stradale, le pene detentive e pecuniarie possono essere sostituite con il lavoro di pubblica utilità (ossia la prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività).
La norma dispone che la conversione sia fatta in modo che il lavoro abbia una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata e ragguagliando 250 euro ad un giorno di lavoro di pubblica utilità.
Molti sono i vantaggi: infatti, allo svolgimento con esito positivo del lavoro il giudice dichiara estinto il reato, dispone il dimezzamento della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato.
Attenzione però: per i recidivi questa possibilità non vale, infatti, il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di una volta.

Per i recidivi o per chi abbia cagionato un sinistro stradale vi è una diversa possibilità, ossia l’istituto della messa alla prova, previsto dagli artt. 168 bis, ter e quater del codice penale: “nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova”.
L’istituto prevede la cosiddetta prova, ossia la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e il risarcimento del danno. A ciò si aggiunge l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento (sorvegliato) di attività di volontariato o di altro rilievo sociale, o il mantenimento di specifici comportamenti, o il divieto di mantenerne altri o frequentare determinati posti con altresì la prestazione di lavoro di pubblica utilità, non retribuito, per una durata di almeno dieci giorni.
La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta, ma, all’esito positivo della prova, comporta la dichiarazione di estinzione del reato.
Per chi, dunque, sia stato fermato per guida in stato di ebbrezza, esistono diverse possibilità di impedire la pronuncia di una condanna penale, con tutte le gravi conseguenze del caso.

Deve anche tenersi presente che la Cassazione, a sezioni unite, ha comunque ritenuto applicabile alla guida in stato di ebbrezza la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p., indicando anche il criterio di applicazione: “resta pur sempre spazio per apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato ed al solo fine della ponderazione in ordine alla gravità dell’illecito, quale sia […] il concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al bene tutelato” (Cass. 13681/2016).

Infine, non pensiate, qualora siate stati fermati dalle forze dell’ordine e temiate di essere in condizione di aver superato le soglie consentite, di evitare tutte le conseguenze negative semplicemente rifiutandovi di far eseguire l’accertamento.
In tal caso, infatti, la conseguenza è l’applicazione della sanzione più alta, come disposto dal co. 7 dell’art. 186 CdS: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, in caso di rifiuto dell’accertamento di cui ai commi 3, 4 o 5, il conducente è punito con le pene di cui al comma 2, lettera c). La condanna per il reato di cui al periodo che precede comporta la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo da sei mesi a due anni e della confisca del veicolo con le stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione”.

Pirati della strada. Cosa fare se si resta coinvolti in un incidente con veicolo in fuga

Pirati della strada. Cosa fare se si resta coinvolti in un incidente con veicolo in fuga

Essere coinvolti in un incidente con un veicolo ignoto o che si dilegua dopo il sinistro è una brutta disavventura, ma esistono forme di tutela dell’utente della strada incolpevole.

Per prima cosa chiariamo un punto: fermarsi in caso di sinistro è obbligatorio. L’art. 189, comma 1, del Codice della Strada, infatti chiarisce che “l’utente della strada, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento, ha l’obbligo di fermarsi e di prestare l’assistenza occorrente a coloro che, eventualmente, abbiano subito danno alla persona”. I successivi commi 5 e 6 specificano le sanzioni, amministrativa in caso di incidente con soli danni alle cose e penale in caso di incidente con danni alle persone.
La fuga, per di più, costituisce specifica aggravante dei delitti di omicidio stradale e lesioni personali gravi o gravissime stradali (589 bis e ter e 590 bis e ter del Codice Penale).

Ma cosa deve fare l’utente della strada vittima dell’incidente se comunque il veicolo che ha causato si desse alla fuga?
Per garantire tutela anche alle vittime di veicoli pirata la Legge 990/1969 ha istituito il fondo di garanzia per le vittime della strada (FGVS). Il Fondo, gestito dalla CONSAP (una società a capitale pubblico) e operativamente amministrato da compagnie di assicurazione designate dall’IVASS, risarcisce i danni alla persona e, in casi particolarmente gravi, anche alle cose, delle vittime di sinistri causati da veicoli pirata o non assicurati, garantendo protezione all’infortunato incolpevole.

Purtroppo la procedura per ottenere il giusto risarcimento non è agevole, e piena di insidie: il Fondo, infatti, non è una “’assicurazione del pirata della strada” e opera secondo logiche molto stringenti.

Per prima cosa, dunque, se siete rimasti vittima di un incidente con un veicolo pirata, dovete allertare i soccorsi: forze dell’ordine (per gli opportuni rilievi) e sanitari (per la refertazione delle lesioni subite).
Chiamate dunque la polizia e recatevi quanto prima al pronto soccorso, in questo modo verranno operati i corretti rilievi del luogo e delle circostanze del sinistro, e verranno ben documentate le lesioni che avete subito.
Altresì fondamentale è l’identificazione di ogni possibile testimone.
Il Fondo, infatti, esige una documentazione molto stringente per dar luogo alle procedure di risarcimento e la vostra dichiarazione non sarà sufficiente: occorrerà documentare tutto in modo appropriato e completo.

Altra cosa essenziale da fare è informare immediatamente, e non oltre tre giorni, la CONSAP e la compagnia designata per il territorio in cui è avvenuto il sinistro dell’avvenimento in modo che sia aperta una posizione e nominato un liquidatore con cui interfacciarvi.

Ma non basta: il Fondo esige che vi sia stato un tentativo di identificazione del veicolo pirata. Ciò non significa, naturalmente, che dobbiate mettervi a svolgere delle indagini. Sarà sufficiente la querela alla competente autorità, che provvederà poi a svolgere tutte le indagini necessarie.
La querela può essere presentata personalmente o tramite un avvocato, alla Procura della Repubblica o a un ufficiale di polizia giudiziaria presso un commissariato di polizia, un comando stazione dei carabinieri e perfino al comando di polizia municipale.
Se optate per presentarla personalmente, potete anche farlo oralmente all’ufficiale di polizia giudiziaria, che provvederà a redigere un verbale e consegnarvene una copia.
Comunque la querela dimostrerà la vostra diligenza ma non l’esistenza del sinistro, che andrà provata tramite testimoni o almeno con i verbali di intervento delle forze dell’ordine, che potrete richiedere all’ufficio incidenti del comando intervenuto (previa autorizzazione del Pubblico Ministero se vi fosse un’informativa di reato).

Presentata la querela e raccolta tutta la documentazione, medica e legale, potrete inoltrare al Fondo, tramite la compagnia designata per la Regione in cui si è verificato il sinistro, la domanda di risarcimento. Il Fondo provvederà a verificare che abbiate diritto e a quantificare il risarcimento mediante i necessari accertamenti medici legali.
Ricevuta la richiesta di risarcimento, il Fondo dovrà farvi un’offerta di risarcimento entro tempi ben definiti. Qualora il Fondo non presentasse alcuna offerta (ad esempio perché non ritenesse esistente il sinistro) o riteneste di non accettarla, non vi resterà che agire giudizialmente per la tutela dei vostri diritti.

Tutte le pratiche necessarie possono essere svolte personalmente, tenendo presente che se decidete di rivolgervi ad un legale, le sue competenze saranno onorate dal Fondo stesso.

L’elenco delle compagnie incaricate per territorio è disponibile a questo link.

Se il datore di lavoro non paga lo stipendio: che fare?

Se il datore di lavoro non paga lo stipendio: che fare?

Può capitare, soprattutto in periodi di crisi economica, che il datore di lavoro non paghi uno o più stipendi.
Che fare in questi casi?

Il sentimento del lavoratore è sempre duplice: da un lato vi è la volontà di recuperare quanto dovuto, dall’altro vi è il timore di creare una frattura nei rapporti con il datore di lavoro e di entrare in un lungo contenzioso, senza poi sapere se e quando la pretesa sarà pienamente soddisfatta.

L’ordinamento, tuttavia, mette a disposizione del lavoratore degli strumenti semplici e, talvolta, molto veloci, per affrontare queste situazioni.

Distinguiamo subito due possibilità: può accadere che il datore di lavoro non paghi lo stipendio, ma consegni il cedolino paga, oppure che non dia entrambi. Anche la mancata consegna del cedolino è una violazione dei doveri del datore di lavoro (punibile con una sanzione amministrativa da 150 a 900 euro) dal momento che il diritto del lavoratore a riceverlo è stabilito dall’art. 1 L. 4 del 05.01.1953.

Nel caso in cui il datore di lavoro abbia consegnato al lavoratore il cedolino, tutto è più semplice. Il cedolino costituisce infatti scrittura contabile aziendale e dunque fa piena prova contro l’imprenditore con la conseguenza che il lavoratore potrà richiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo (ossia un ordine del Giudice di pagare la somma dovuta, oltre agli interessi e alle spese legali) al Tribunale del luogo in cui presta la propria attività.

A questo punto costui può scegliere se pagare entro 40 giorni o fare opposizione; se decide di opporsi si instaurerà una causa di lavoro in cui il datore di lavoro dovrà dimostrare, per essere liberato, di aver effettivamente corrisposto le retribuzioni reclamate.
Comunque, alla prima udienza il Giudice potrà decidere di rendere provvisoriamente esecutivo il decreto ingiuntivo, abilitando il lavoratore all’esecuzione forzata, ovvero al pignoramento di beni o di crediti dell’impresa, per vedere soddisfatte le proprie pretese.

Se entro i 40 giorni il datore di lavoro non paga e non fa opposizione, il decreto ingiuntivo diviene esecutivo, e il lavoratore può procedere all’esecuzione forzata.
Se invece il datore di lavoro non consegna il cedolino, il lavoratore dovrà instaurare una causa di lavoro dimostrando non solo l’esistenza del rapporto, ma anche l’ammontare dovuto, mancando una scrittura proveniente dall’impresa con efficacia probatoria.

Vi è però una strada più semplice, meno costosa e più veloce: la diffida accertativa. Prevista per la prima volta dal D. Lgs. 124 del 23.04.2004, la diffida è un atto non giurisdizionale, ma dell’ispettore del lavoro, che consente di arrivare rapidamente alla formazione del titolo esecutivo (e quindi all’esecuzione forzata).
Nel corso di una ispezione, anche eventualmente su sollecito del lavoratore, dunque, l’ispettore può compiere un accertamento di tipo tecnico, ossia accertare che il lavoratore è creditore di una determinata somma di denaro certa, liquida ed esigibile.

Il Ministero del Lavoro ha chiarito che sono accertabili tecnicamente, e quindi diffidabili, fra gli altri, i crediti retributivi da omesso pagamento, fino ad estendersi anche alle ipotesi di dequalificazione o lavoro sommerso.

Accertata la debenza, l’ispettore del lavoro compila la diffida e la notifica al datore di lavoro. Questi, entro 30 giorni può promuovere la conciliazione alla direzione territoriale del lavoro o il ricorso al comitato regionale per i crediti patrimoniali.

Se omette entrambe le cose, e non paga, scaduti i 30 giorni il direttore della Direzione Territoriale del Lavoro può attribuire alla diffida valore di titolo esecutivo, abilitando così il lavoratore all’esecuzione forzata.

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