Associazione in locali commerciali: per il Consiglio di Stato è possibile

Il Consiglio di Stato prende una importante posizione in tema di uso di immobili con destinazione d’uso commerciale che siano stati adibiti, senza esecuzione di opere, a luoghi di culto o sedi di associazioni religiose.

La vicenda trae origine da una ordinanza del Comune di Venezia del 2018 con cui veniva disposto a carico di una associazione religiosa locale, che si riuniva in un locale precedentemente adibito a negozio e con destinazione d’uso commerciale, e che l’associazione stessa regolarmente conduceva in locazione non residenziale, di “ripristinare” la destinazione d’uso commerciale, asseritamente mutata rispetto all’uso effettivo, di luogo di riunione a fini religiosi.

Stando alla prospettazione del Comune, l’uso a fini religiosi o culturali è incompatibile con la destinazione d’uso commerciale e che, dunque, l’associazione avrebbe dovuto chiedere un conforme titolo edilizio per il mutamento di destinazione d’uso (mutamento che lo stesso Comune avrebbe, peraltro, ritenuto impossibile in ragione delle limitazioni della zona urbanistica).

L’associazione, patrocinata dagli Avvocati Marco Biagioli e Caterina Caregnato ricorreva al TAR Veneto evidenziando l’illegittimità dell’ordinanza sotto molteplici profili, tra cui la non rilevanza della destinazione d’uso in relazione all’uso “religioso”, sulla base della corretta interpretazione dell’art. 23 ter T.U. Edilizia, ossia la norma che direttamente dispone quando sia necessario ottenere un titolo edilizio.

Partendo da una accurata interpretazione di una pronuncia della Corte di Cassazione, secondo cui “per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di cui al D.P.R. 380/2001, e cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non determini l’assegnazione dell’immobile a una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico urbanistico nel senso anzidetto” (Cass. 34812/2017), i ricorrenti sostenevano l’irrilevanza urbanistica del contestato mutamento di destinazione d’uso.

In primo grado il TAR Veneto rigettava il ricorso sostenendo che l’associazione avrebbe dovuto ottenere un titolo abilitativo edilizio per l’esercizio del culto nel negozio de quo.

Avverso tale sentenza l’associazione interponeva appello al Consiglio di Stato chiedendo l’integrale riforma della prima pronuncia e la sospensione medio tempore del provvedimento impugnato.

Con ordinanza cautelare 2788/2019 del 30.5.2019 il Consiglio di Stato accoglieva la richiesta di sospensiva motivando in piena aderenza agli argomenti di parte ricorrente: “considerato che, ad un primo sommario esame proprio della fase cautelare, il contestato mutamento di destinazione d’uso, non appare urbanisticamente rilevante”.

La pronuncia, come si capisce, non riguarda tanto il pericolo che derivi all’associazione dall’esecuzione del provvedimento, ma il merito della vicenda, ossia l’esistenza o meno del diritto.

La motivazione, peraltro, ricalca pienamente quanto sostenuto dall’associazione appellante, ossia che la destinazione a luogo di culto sia in sé astrattamente compatibile con tutte le categorie funzionali di cui all’art. 23 ter D.P.R. 380/2001, a condizione che non siano eseguite opere che richiedano di per sé stesse il conforme titolo abilitativo.

Tale pronuncia è destinata a tracciare una linea importantissima per la vita delle associazioni religiose e culturali che svolgono una parte importante nella società ma che molto spesso sono andate incontro a interventi legislativi o amministrativi ritorsivi e volutamente discriminatori, sovente mascherati sotto la disciplina edilizia urbanistica.

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